Giuseppe Salvaggiulo per "la Stampa"
Daniel Markovits
La connessione patologica tra meritocrazia, diseguaglianze e democrazia americana attraversa la conversazione con Daniel Markovits. Classe '69, titolare a Yale, la più prestigiosa Law School americana, della cattedra di diritto privato intitolata a Guido Calabresi (fondatore della scuola economica del diritto, teorico delle «scelte tragiche» e ora giudice federale a New York), Markovits si è imposto nel dibattito pubblico americano con il libro The Meritocracy Trap (La trappola della meritocrazia, Penguin Press), definito «ambizioso e disturbante» dalla New York Times Book Review.
Nella annuale conferenza torinese del «Common Core of European Private Law», un progetto internazionale di studi organizzato da oltre 25 anni dall' International University College coinvolgendo centinaia di giuristi con più di 15 volumi già pubblicati per i tipi di Cambridge University Press, Markovits ha tenuto una conferenza intitolata «Enough! The Good Life after the Age of Growth». Ovvero: «Basta! La vita felice dopo l' era della crescita».
IL MITO DELLA MERITOCRAZIA
Perché la meritocrazia è una trappola?
«Perché rifà la vita come una competizione senza fine che assicura i ricchi ed esclude gli altri, incoraggiando lo sviluppo del "capitalismo umano", il regime economico in cui la formazione e le competenze dei lavoratori sono la più grande fonte di ricchezza della società».
Con quali conseguenze?
«Questo sviluppo porta le élite a investire nelle scuole per i propri figli, in modo che l'istruzione si concentri nelle famiglie ricche. Allo stesso tempo, ristruttura il lavoro piegando l' innovazione tecnologica per favorire proprio quelle professionalità che solo l'istruzione d' élite fornisce. Queste trasformazioni precludono alla maggior parte delle persone - poveri e classe media - un accesso significativo ai vantaggi sociali ed economici».
Una trappola per i poveri.
«Non solo, perché allo stesso tempo le élite che sembrano beneficiarne devono dedicare la loro vita e quella dei loro figli a una scuola e a un lavoro alienanti».
Daniel Markovits
In che senso la meritocrazia è il mito fondatore della società americana?
«Quando i padri fondatori degli Stati Uniti si liberarono dell' aristocrazia ereditaria europea, abbracciarono consapevolmente quella che Thomas Jefferson chiamava un' aristocrazia del talento. Molte persone furono escluse, soprattutto schiavi di origine africana, nativi e donne. Ma tra gli inclusi, il merito - inteso come talento più sforzo - doveva sostituire il lignaggio come legittimazione delle gerarchie sociali. E col tempo, secondo il mito, una società sempre più illuminata ha gradualmente rimosso le esclusioni, regnando l' uguaglianza delle opportunità».
Non è così?
MERITOCRAZIA
«Questo è un mito non solo per la ragione che le esclusioni basate su razza e sesso e non sono state completamente superate, ma anche perché la meritocrazia stessa è diventata un modo per escludere tutti, tranne i ricchi, diventando un ostacolo alle pari opportunità».
Com' è vista la questione nelle università americane d' élite, come la sua?
«La mia sensazione è che sia gli studiosi sia gli studenti si siano avvicinati all' idea che la meritocrazia sia la causa dell' ingiusta gerarchia più che la soluzione. I vertici delle università d' élite rimangono più scettici. Le università si trovano di fronte a una dura scelta tra uguaglianza ed elitarismo. Io sostengo che dovrebbero scegliere l' uguaglianza. Ma farlo richiederebbe l' abbandono del modello di business dell' educazione d' élite americana».
IL MITO DELLA MERITOCRAZIA
E nel dibattito politico?
«Anche il mondo politico ha cominciato ad abbracciare l'idea che una disuguaglianza meritocratica rimane una forma di gerarchia e che la meritocrazia è diventata aristocrazia con altri mezzi e sotto un nuovo nome. Questo riconoscimento attraversa le linee di partito. La partigianeria negli Stati Uniti è potente come mai a memoria d' uomo, ma si basa tanto sul tribalismo quanto sull' ideologia».
La pandemia sta cambiando l'approccio dell' opinione pubblica americana al tema delle diseguaglianze?
joe biden 2
«Ha messo a nudo disuguaglianze che prima erano mascherate. Le persone ora chiamate "lavoratori essenziali", che hanno salvato il paese e sopportato il peso della malattia, prima erano spesso definite "non qualificate". Questo ha portato più persone a riconoscere che i salari che il mercato paga non sono una buona misura del contributo di un lavoratore alla società. Inoltre, gli americani sono più disposti ad accettare, e persino ad abbracciare, il governo come fonte di sostegno sociale. Infine, gli americani stanno cominciando a diventare più favorevoli non solo alla spesa progressiva, ma alla tassazione redistributiva. Le tasse sulla ricchezza, per esempio, sono nell' agenda politica come non mai».
La vittoria di Biden è una svolta?
«È presto per dirlo, per due motivi. Primo: il partito repubblicano - sia le sue élite che i suoi elettori - è al momento ostile alla democrazia. Questo minaccia una rottura catastrofica nell' ordine politico americano. Allo stesso tempo, la maggior parte degli americani rifiuta queste manovre e rimane fedele alla democrazia.
working poor
Quindi si prospetta una battaglia. Il secondo motivo riguarda le strutture economiche e sociali sottostanti. L' amministrazione Biden sta aumentando massicciamente la spesa sociale e sta lavorando - con una serietà di intenti che non si vedeva da oltre mezzo secolo - per smantellare le disuguaglianze che affliggono la vita americana. La sua idea è che il successo su questo fronte salverà anche la democrazia».
Perché ha intitolato "Basta!" la sua conferenza a Torino?
«Pensiamo alla crescita come un valore universale: se un po' è buono, di più deve essere meglio. E l'ideale di crescita organizza la vita sociale e individuale intorno all' accumulazione. Ma questo ideale è un'invenzione storica recente: prima del 1800, la crescita aveva un ruolo molto limitato nell' esistenza umana in qualsiasi parte del pianeta.
Joe Biden
La conferenza sostiene che la crescita è nata in risposta a un particolare insieme di problemi storici e ora pone una minaccia esistenziale alla nostra civiltà e alle nostre vite individuali. Il nostro ambiente non può semplicemente ospitare molta più crescita, e la ricerca di accumulare ricchezza sta spogliando le nostre vite personali di significato. Dobbiamo sostituire la crescita con un nuovo principio organizzativo, e io propongo alcune possibilità. Sostengo anche che, fortunatamente, la crescita ha risolto i problemi per cui è stata sviluppata, così che ora possiamo andare oltre».