Dario Salvatori per Dagospia
dario salvatori foto di bacco
Sulla “Repubblica” di giovedì è apparso un articolo, anzi il primo di una serie, riguardante i “Giovani Favolosi”, che avrà come riferimento i nuovissimi talenti musicali. Non stiamo parlando dei rappers, ormai vicini allo scivolo pensionistico, ma di coloro usciti poco prima o poco dopo i Maneskin, la pista tracciante degli ultimi dodici mesi.
L’articolo di Simonetta Sciandivasci prende in esame la cosiddetta Generazione Z, che vede la musica come un romanzo di formazione, soprattutto basando tutto sulla testualità, visto che all’appello non rispondono diplomi o studi musicali, perizia strumentale, ballo o altro. Intanto non si capisce bene perché quando si vuole indicare un gruppo aggregativo anagrafico si sceglie sempre una delle ultime lettere dell’alfabeto, meglio se non italiane, Y, W, ecc,.
maneskin
Andrebbe meglio Generazione A come afona, ovvero dal suono debole, flebile, opaco, soffocato. Sarà anche vero che sanno scrivere (“sanno scrivere anche quando sono analfabeti”) ma ci mettono un nano secondo a cambiare le carte in tavola.
Tre anni fa Claudio Baglioni, allora direttore artistico del Festival di Sanremo, chiamò in gara lo Stato Sociale - un gruppo fino a quel momento noto solo per un uso massivo del turpiloquio - avvertendo che all’Ariston e soprattutto a Raiuno, quel tipo di linguaggio non sarebbe passato. Cambiarono immediatamente rotta.
lo stato sociale
Stesso discorso lo scorso anno per i Maneskin: c’erano un paio espressioni toste e Amadeus li avvertì. E loro ne presero atto. La risposta di Victoria, la bassista, nonché ideologa del gruppo, fu immediata: “Certo, siamo giovani ma non siamo mica stupidi”. Insomma, quand’è che il testo è fondamentale? Sostanzialmente quando occorre passare da “indipendenti” a “mainstream”.
Anche Lucio Dalla, a Sanremo 1971, sostituì al volo l’originario testo di Paola Pallottino (“E adesso che bestemmio e bevo vino per gli amici del porto sono Gesù Bambino”), moderando le parole, aggiungendo un pizzico di night anni Cinquanta con il coro “uacci wari uaa!” e soprattutto sostituendo il titolo “Gesù Bambino” con il suo atto di nascita, “4 marzo 1943”. Non tutti sanno essere accomodanti.
lucio dalla francesco de gregori banana republic 2
Quando i Rolling Stones vennero invitati all’ “Ed Sullivan Show” nel febbraio del 1967 per lanciare “Let’s spend the night together”, i produttori del programma chiesero di cambiare il testo. Mick Jagger si rifiutò. Se non vi piace ce ne andiamo. Non solo. Durante la registrazione eseguì la strofa originale, bofonchiando qualcosa contro lo storico conduttore davanti a 70 milioni di spettatori. Insomma, non tutti sono nati per il compromesso.
Nell’articolo di “Repubblica” si accenna varie volte ai Maneskin (i quali, per la precisione, non vinsero “X Factor”, ma arrivarono secondi), ed è difficile credere che la loro versione di “Beggin’” sia ispirata a quella originale di Frankie Valli (oggi 87enne) leader dei Four Seasons, che risale al 1967. Più credibile che abbiano ascoltato quella del 2007 dei Madcon, duo africano naturalizzato norvegese.
orietta berti achille lauro fedez 1
La verità è che viviamo in un’epoca in cui il senso di artisticità si è fortemente smarrito. Stesso discorso per l’originalità e per l’anticonformismo. L’articolo cita prevedibilmente Edmondo Berselli, che in avanzata maturità prese a parlare e a scrivere di canzoni. Berselli, come gran parte dei ragazzi babyboomers, conosceva e amava solo gli anni Sessanta, ignorando il prima e il dopo.
Parla di testi, appunto, perché non poteva parlare di musica. Mettendo in piedi un colosso d’argilla degli anni Sessanta. Il suo era un impianto tabellare, cartaceo, accademico e poco esistenziale e non è consigliabile prender sul serio il parlar di musica di chi non ha mai scavalcato una transenna, fumato una canna, nascondendosi sudato fra il primo e il secondo spettacolo per rimanere in sala, piazzandosi nel sottopalco, pogare, intrufolarsi nei camerini. Una volta l’esistenziale era alla base della passione per il rock o per un certo tipo di pop.
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La polemica, se così si può dire, si deve a Francesco Guccini, che proprio dalle colonne di “Repubblica” si fece scappare “le canzoni oggi mi sembrano del tutto inutili e mi fanno pensare con nostalgia a quelle vecchissime dove c’erano storie, parole messe bene insieme.” E già il Maestrone. Però pure lui qualche bufala l’ha lanciata, per esempio dedicando canzoni alle Clarks, all’eskimo e alla giustizia proletaria, salvo poi negli anni correggere il tiro e dire che lui non è mai stato comunista. Semmai socialista. Certo, un turatiano che scende dall’appennino tosco-emiliano.
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Riguardo la vera novità dell’estate, ovvero i tormentoni rinforzati dai nonnetti, ancora una volta ci siamo fatti riconoscere. Se negli Usa hanno Tony Bennett (95 anni) e Lady Gaga, una delle più astute cantanti della nostra epoca, in Italia abbiamo sfornato nell’ordine: Colapesce-Di Martino con Ornella Vanoni, Fedez-Achille Lauro con Orietta Berti, Sud Sound System con Albano, Rovazzi con Eros Ramazzotti.
Un nuovo visual merchandising. Qui si contempla il terrore dei cantanti maturi che non vogliono finire su “Teche Teche” e la quasi certezza dei giovani di non avere una long term artistica. I veterani scelti possono vantare sette decadi di successo (sette decadi!), mentre i nuovi vanno a mesi. Vi ricordate il grande successo dello scorso anno di Anna Pepe? “Bando” fu uno smash hit di rara potenza milionaria, per l’Italia il maggior successo di rete per una debuttante sedicenne. Non sono più pervenute news che la riguardino. La verità è che nella rete - e non soltanto nel comparto musicale - si vive un eterno presente. E’ fondamentalmente eterea, effimera, instabile e inaffidabile. A volte, quando cercate di accedere a una pagina, salta fuori un messaggio di errore: “Pagina non trovata”.
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E’ la disperazione. Sabbie mobili. La rete ha la sua strada lastricata di cadaveri. Forse siamo tutti schiavi di un Io idealizzato e virtuale, che oscura il nostro reale e ci allontana da ogni legame autentico pur di non rinunciare alla pigra comodità dell’era digitale. Certo è che in questa social-solitudine la musica svolge un ruolo primario.
IL ROMANZO DI FORMAZIONE ORA È LA MUSICA
Simonetta Sciandivasci per “la Repubblica”
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Un lustro fa ratificavamo la rinascita della musica italiana. Registravamo l'avvenuto ricambio generazionale, il passaggio dai cantautori di sempre a quelli che emergevano dall'underground e, stufi di marginalità e precariato, diventavano popolari. Manuel Agnelli accusava quasi tutti di "conformismo dell'anticonformismo", mentre diventava giudice di X Factor , incarnando la transizione dalla musica indipendente al mainstream e la possibilità di trasformare l'antinomia tra le due cose in sinergia. Nella nicchia avveniva uno strappo, nelle classifiche una cucitura. Ora, Calcutta, Tommaso Paradiso, la generazione di trentenni che sembravano destinati a capitanare classifiche e ricerca, sono stati sorpassati da adolescenti o poco più che con loro condividono poco, anzi nulla. La nuova musica italiana è invecchiata, ha ceduto il posto a un'altra che non contempla bel canto, né blu, né melodia e della quale quasi tutti diffidano.
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Si diffida dell'obbedienza all'algoritmo, dell'accondiscendenza al mercato e si decreta che entrambe le cose inibiscono la creazione di una musica libera ed emozionante. Cosa resterà di questo rap e questa trap, della loro verbosità ripetitiva e violenta? Madame e molti altri che sono troppi e troppo bravi, sono meteore o stelle comete? Che chance ci sono, fuori dal recinto rap e trap, per la canzone d'autore che temiamo estinta? Francesco Guccini ha detto a questo giornale che le canzoni che passano in radio gli sembrano inutili e gli fanno pensare con nostalgia a quelle vecchissime, dove c'erano «storie, parole messe bene insieme ». E anche: «La realtà pullula di giovani cantautori, ma non arrivano a nessuno».
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Umberto Tozzi ha detto a Rolling Stone : «La musica di oggi è ridicola: non fa rumore, è rumore». Anche al rock veniva rimproverato d'essere rumore: mezzo secolo dopo, a tirarlo fuori dalle teche museali ci pensano i Måneskin, quattro ventenni che hanno cominciato a suonare per strada e poi hanno vinto X Factor , Sanremo, l'Eurovision, e sono arrivati al primo posto della classifica mondiale di Spotify con una cover di Beggin dei Four Seasons, un pezzo del 1967. Fedez e Achille Lauro duettano con Orietta Berti e i Måneskin con Iggy Pop. Il rapper e il trapper, trentenni, si mescolano con l'icona della musica leggera italiana; i rocker, ventenni, con l'icona del rock mondiale. Questa intersezione dà la misura del talento imprenditoriale dei nuovi artisti: lo stupore che sono capaci di suscitare non è l'esito di un tentativo, ma di un progetto.
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A maggio è nata la fondazione Italia Music Lab, voluta dalla Siae per «supportare i giovani che vogliono diventare professionisti dell'industria musicale sulle piattaforme online »: una delle prime lezioni s' intitola "Come guadagnare con la musica". Prima delle piattaforme, il discografico metteva sotto contratto chi aveva un talento promettente, ora chi ha numeri promettenti, quindi chi sa già "come guadagnare con la musica", almeno nell'immediato. Eppure, dentro e fuori da queste griglie, i nuovi musicisti sono anguillari e fluidi come ogni ragazzo della Generazione Z, e non solo perché laddove ci aspettiamo la musica, ci danno le parole, e laddove ci aspettiamo le parole ci danno il flow (la ritmica).
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Mutano a una velocità che ha un unico parametro: la viralità. E infatti il loro strumento è quello della viralità: le parole. Le usano con precisione e furbizia, ne conoscono l'agilità, sanno che sono convenzioni e che quindi il loro valore e i loro significati sono elastici, riformulabili. Sono la generazione dell'intransigenza lessicale e, insieme, dell'invenzione del linguaggio. Le canzoni sono i loro romanzi di formazione, in formazione. A volte non sanno suonare, però sanno scrivere. Sanno scrivere anche quando sono analfabeti (sì, ci sono adolescenti analfabeti: nelle carceri minorili se ne incontrano tanti), e allora dettano, rappano. I testi sono l'opera e il valore musicale di quest' opera è, prima di tutto, letterario.
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Edmondo Berselli ha scritto che quando una canzone ufficializza una trasformazione, ne diventa anche il manifesto e il canone. Agli Z, che i canoni li contestano, tuttavia creandone altri, manca un manifesto, una canzone che li descriva e li legittimi. Per questo sembra che non raccontino storie. Il punto è che a loro non importa. Il punto è che loro, come tutti i mutanti, sono indescrivibili. La primavera scorsa, la ragazza dei record era Anna Pepe: era l'opposto dei Måneskin o di San Giovanni, altro recordista dell'estate, uno che canta «ho una proposta sexy da farti, cresciamo insieme», forse la più congrua descrizione delle ambizioni di chi s' affaccia al mondo nel 2021.
DARIO SALVATORI
Anna Pepe, sedici anni, con Bando, un pezzo registrato in casa su un beat trovato su You-Tube, in poche settimane era diventata la più giovane artista italiana su un podio e s' era guadagnata un disco d'oro e un contratto con la Virgin. Ora non è che una eco. L'ha sciupata lo streaming, oppure c'è anche molta fuffa in questa mole di proposte, tutte uguali perché solo la perpetrazione dell'identico consentono i mezzi che con cui vengono realizzate (come i type beat, basi che riprendono brani di grandi artisti)? E cos' è il talento, dopo quindici anni di talent show? Genio e regolatezza? E cos' è la musica? Un sottofondo, un volano?
Si suona di meno e si parla di più, l'hip hop è colonna sonora di requisitorie, richieste, preghiere: la facilità di esecuzione che lo contraddistingue lo ha reso strumento di emancipazione e contaminazione, specie nelle carceri minorili. L'hip hop si replica e muta, tra i suoi nuovi scenari, che a volte di hip hop hanno nulla, offre il seminario della gioventù del presente.
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Ci stupiamo della risposta entusiasta degli adolescenti alla campagna vaccinale perché li immaginiamo riottosi e solitari, mentre nella loro musica è chiaro che sono impermeabili alle società chiuse puntellate dal sovranismo ed è chiaro che l'ecologismo è il modo che hanno per opporsi alla vita ritirata dalle comunità. Ammettono che il valore artistico è un fatto sociale purché si allarghino i confini del bacino sociale - com' è la vita e il cuore di un giovane italiano di seconda generazione, dopotutto, ce l'ha raccontato Ghali, rapper.
Abbiamo individuato cinque artisti che raccontano tutto questo, che sono in transito tra invenzioni e ripetizioni, che sono cantautori che arrivano a molti, che nella musica hanno trovato un inizio, indirizzano il mercato quanto lo subiscono, al pari dei cantautori degli anni Sessanta, che arrivarono quando la musica leggera era diventata insostenibile, per elevarla e rispondere a una domanda più differenziata, poiché i figli non ascoltavano più i dischi dei genitori e, per la prima volta, il pubblico si stratificava. Oggi, la domanda è meno stratificata dell'offerta, ciascun musicista ha i propri seguaci, la fan base abituata a ibridarsi con quelle d'altri per allargare il successo. Nessuno di loro è bigger than life: la vita è cambiata e le stanno prendendo le misure. Per questo, cantano per scrivere.
LUCIO DALLA madame anna pepe 8 anna pepe 9 madame 19 madame 24 madame 18 anna pepe 7 lucio dalla il santo patrono 2