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    LA LADY DI FERRO DEL JAZZ - DEE DEE BRIDGEWATER: “CHE FATICA FARSI STRADA IN UN AMBIENTE COSÌ MACHO E RAZZISTA" - "ALL’EPOCA ERA MOLTO IN VOGA IL COUCH CASTING; QUALSIASI PRODUTTORE PROVAVA A STENDERTI SUL DIVANO PRIMA DI DARTI LA PARTE"


     
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    Giuseppe Videtti per “la Repubblica”

     

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    Il teatro è vuoto, i musicisti riuniti sul palco. È l’ora delle prove, pomeriggio prima del concerto. «Non perdete il controllo. MAI! Se lo fate siete fottuti, lo spettacolo è fottuto, la serata è fottuta».

     

    È il boss che parla, una lady di ferro. Testa rasata a zero, sessantacinque anni appena compiuti, ancora molto sexy, Dee Dee Bridgewater ha attraversato quasi mezzo secolo di jazz; sa che tra poco la Volkswagen Arena di Istanbul si riempirà di tremila persone che penderanno dalle sue labbra.

     

    Niente errori alla sua età e con la sua reputazione. Si avvicina, strizza l’occhio: «Ho imparato la lezione a vent’anni da Betty Carter, il mio idolo», mi bisbiglia all’orecchio. «Al Village Vanguard di New York ero la sua ombra. Non mi permetteva di assistere alle prove, ma io sbirciavo. Ero affascinata da come gestiva i suoi affari, un’artista indie ante litteram: produceva i suoi dischi, aveva la sua etichetta. Ho sempre voluto essere come lei, libera e rispettata».

     

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    Torna tra i suoi musicisti, e a quel punto sono solo abbracci e strette di mano e occhiate d’intesa. La tensione si scioglie come miele nel latte caldo quando Dee Dee prova per intero una sola canzone, The Music Is the Magic di Abbey Lincoln («La Billie Holiday della nostra generazione»). Non ancora concerto ma già sublime: « La musica è la magia di un mondo sacro/ un mondo che è sempre dentro di noi » ripete con un impareggiabile, elegante, sensuoso fraseggio.

     

    È una delle canzoni in programma, insieme alle perle del nuovo Dee Dee’s Feathers ( Ed. Okeh/Sony), l’album dedicato a New Orleans e realizzato con l’orchestra del giovane Irvin Mayfield, band leader con due Grammy alle spalle che ha perso il padre durante Katrina.

     

    «È stata un’esperienza molto toccante», racconta Dee Dee, «abbiamo inciso all’Esplanade, una vecchia chiesa distrutta dall’uragano riadattato a studio di registrazione, un posto magico». Dee Dee’s Feathers, al quale hanno collaborato Dr. John e Harry Connick Jr., è il disco che la riconcilia con gli Usa dopo tanti anni trascorsi in Francia. Oravive a Los Angeles, ha due nipotini dalla figlia maggiore Tulani e collabora con China Moses, avuta dal secondo marito (Gabriel Durand, nato dal matrimonio parigino, l’accompagna spesso alla chitarra).

     

    «Mia madre mi ha confidato che a sette anni riunii la famiglia e dissi solennemente: “Voglio fare la cantante jazz, voglio trasferirmi a Parigi e voglio diventare una star internazionale”. Pare che il sogno si sia avverato», racconta rilassandosi nel camerino dove già incominciano ad arrivare mazzi di fiori (Istanbul è un tripudio di colori per l’annuale Festival dei tulipani).

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    I suoi non si stupirono più di tanto, il jazz era di casa. «Mio padre, un uomo bellissimo, suonava la tromba, accompagnò anche Dinah Washington in più di una occasione. Ho dei ricordi fantastici di me e mia madre che gli correvamo dietro per tener sotto controllo le sue scappatelle».

     

    A Parigi ci sarebbe finita davvero, molti anni dopo, da star. Prima ci sarebbero stati l’università, la fuga dal Michigan e il precoce matrimonio con Cecil Bridgewater, trombettista, come quel padre casanova che lasciava troppo sole le donne di casa. «Nei primi anni Settanta ero già una pasionaria del jazz», ricorda.

     

    «Mi trasferii con Cecil a New York. Il Village Vanguard diventò la mia chiesa, il mio motto era: non vado a messa la domenica, vado al Vanguard il lunedì. Presi il coraggio a quattro mani e dissi a Mel Lewis: senti, io sono molto meglio della cantante che avete. Il lunedì successivo mi convocarono per un’audizione al Village Vanguard, cantai Bye Bye Blackbird e Everyday I Have the Blues. Fui scritturata all’istante dalla band di Thad Jones e Mel Lewis».

    AMII STEWART E DEE DEE BRIDGEWATER AMII STEWART E DEE DEE BRIDGEWATER

     

    A quel punto persino il rifiuto subìto dalla Motown a sedici anni le sembrò una storia remota e irrilevante paragonata al percorso entusiasmante che stava intraprendendo con artisti come Sonny Rollins, Dexter Gordon, Max Roach, Nat Adderley Jr., Horace Silver e Stanley Clarke mentre si preparava a incidere il suo primo album, Afro Blue ( 1974), oggi un cult per i jazzofili.

     

    Nonostante i tentativi di affermarsi con canzoni più commerciali, il destino di Dee Dee era scritto nel grande libro del jazz. A vent’anni aveva chiaro in mente quello che avrebbe voluto essere: intensa come Nina Simone, accattivante come Johnny Mathis, militante come Harry Belafonte, esplosiva come Nancy Wilson, indipendente come Betty Carter, sensuale come Diahann Carroll e Lena Horne. Troppe virtù in una sola cantante.

     

    Il mondo della musica era un macho business , e lei non era ancora la lady di ferro, nonostante il Tony Award avuto nel 1975 per il suo exploit in The Wiz a Broadway (i tre Grammy sarebbero arrivati a partire dagli anni Novanta con i tributi a Ella Fitzgerald e Billie Holiday).

     

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    «All’epoca era molto in voga il couch casting; vale a dire che qualsiasi produttore provava a stenderti sul divano prima di darti la parte. Mi ero appena trasferita a Los Angeles quando ebbi un incontro con il vicepresidente di una multinazionale. Mi invitò nel suo ufficio — Dio, non lo dimenticherò mai! — le foto della moglie e dei figli sparse ovunque, sulla scrivania e sulle pareti.

     

    A brutto muso mi chiese: vuoi diventare la mia amante? Io imbarazzata: ma lei è sposato. E lui: infatti, ho detto amante! Rifiutai e l’album fu archiviato. A casa l’atmosfera non era migliore. Gilbert Moses, mio marito, un regista famoso e psicologicamente violento nei miei confronti, mi teneva lontana dalle scene in maniera umiliante. Fu per togliermi quel giogo dal collo che rifugiai in Europa».

     

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    L’occasione fu l’ingaggio nel musical Sophisticated Ladies e, successivamente, in Lady Day, spettacolo dedicato a Billie Holiday che le riaprì le porte della discografia. «Avevo un debito nei confronti di Billie. La prima volta che l’ascoltai dissi, non sa cantare, non ha l’estensione di Ella, di Sarah Vaughan o di Carmen McRae.

     

    Poi lessi l’autobiografia: fu la sua vita a parlarmi. Cominciai in maniera maniacale a scovare similitudini: lei violentata, io violentata; lei abusata dalle suore in una scuola cattolica, io anche; lei sfruttata dagli uomini, io irrimediabilmente attratta da… gangster e papponi», confessa con una smorfia di disgusto.

     

    «Quale altra donna avrebbe insistito a cantare una protesta violenta come Strange Fruit in un periodo così terribile per gli afroamericani, quando il razzismo era così spietato da vietarci l’ingresso dalla porta principale?

     

    Dopo Strange Fruit cominciò a essere perseguitata dalla polizia, fu bandita dai night club di New York. Non fu solo l’eroina a distruggerla, ammesso che sia stata morte naturale e non un complotto come molti musicisti che lavorarono con lei mi hanno fatto intendere». Scoppia a piangere, singhiozza come una bambina.

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    «Sono arrabbiata, molto arrabbiata. Quando pensi alla sua vita, a quella di tanti altri afroamericani non ti meravigli di quel che è successo a Cleveland. Il razzismo non è mai finito. Ora che abbiamo un presidente afroamericano il partito repubblicano ha buttato giù la maschera e si è rivelato per quello che è, spudoratamente razzista».

     

    Restò in Europa perché in America non c’erano parti in teatro per attrici e cantanti di colore. «E per amore», confessa. «A Parigi incontrai l’uomo che sarebbe diventato il mio terzo e ultimo marito, il produttore Jean-Marie Durand. Lasciai Parigi dopo vent’anni, nel 2007, quando cominciai a sentire anche lì puzza di razzismo.

     

    I critici fecero a pezzi J’ai deux amours, il mio disco francese, salvo poi portare alle stelle Diana Krall. Solo dopo l’uscita di Red Earth — l’album realizzato in Mali alla ricerca delle mie radici — ho avuto la rivincita. Ma a quel punto l’amore non c’era più e io ero pronta a tornare in patria». Neanche Parigi è riuscita a tenerla al riparo dal machismo del music business. Truffata da «un manager che si rivelò un aspide», non ebbe una lira dalle vendite milionarie di Till the Next Somewhere, il duetto inciso con Ray Charles nel 1989.

     

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    «La vicenda finì in tribunale. Negli anni del processo solo Ray cercò di confortarmi. “Ricorda, ci saranno centinaia di manager, ma c’è una sola Dee Dee Bridgewater”, mi disse. “Appartieni al pubblico, è per lui che devi restare la numero uno, e avrai una carriera per tutta la vita. Ed eccomi qui, a un punto dove non avrei mai creduto di arrivare. Serena, realizzata e senza marito. Uomini? Giuro, mai più».

     

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