DAGOREPORT - QUANDO LA MELONI DICE "NON SONO RICATTABILE", DICE UNA CAZZATA: LA SCARCERAZIONE DEL…
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Alessandro Pasini per il "Corriere della Sera"
Il paradosso è che venerdì in Campidoglio era stata presentata un'iniziativa contro il razzismo. Presenti per Roma e Lazio i dirigenti Walter Sabatini e Igli Tare e i giocatori Simplicio e Brocchi. Belle parole, le solite. Iniziative simboliche, le solite: una maglietta indossata all'ingresso del campo con la scritta «Roma e Lazio unite contro il razzismo». Tutto perfetto, tutto nobile. Ma si erano dimenticati di avvertire i tifosi laziali.
Non tutti, certo, ma quanti sono bastati per infestare il derby dei begli ideali e rendere vana anche questa campagna.
à successo al secondo minuto della ripresa. Sotto la curva nord ora c'è la difesa della Roma: adesso sì che Juan è perfettamente sotto tiro. Appena tocca palla, i tifosi biancocelesti lanciano in aria nitidi «buu». Juan - nato a Rio de Janeiro, 33 anni compiuti giovedì, a Roma dal 2007 dopo cinque anni trascorsi a Leverkusen, nazionale brasiliano, difensore corretto e uomo di calcio del quale non si ricordano polemiche - giustamente si inquieta. Si gira verso la curva e porta il dito indice sulle labbra. Vorrebbe zittire i villani e ovviamente ottiene l'effetto contrario: la folla si eccita e i «buu» aumentano.
La situazione prosegue qualche minuto. Juan dice qualcosa al capitano della Lazio, Mauri, il quale allarga le braccia. Sta dalla parte di Juan, ma che ci può fare? Forse andare dai suoi supporter e invitarli a smettere? Non sarebbe una brutta idea, infatti poco dopo a richiamare Mauri è l'arbitro Bergonzi che gli prospetta l'eventualità di una sospensione dell'incontro, mentre lo speaker dello stadio Olimpico ricorda - come da copione - che la società verrà ritenuta responsabile, potrà incorrere nella squalifica del campo, eccetera eccetera. Mauri, in campo, accenna qualche passo verso la sua curva, ma il linguaggio del corpo dice chiaramente che l'ultima cosa che vorrebbe fare è andare là sotto.
Le grida si attenuano e una ventina di minuti dopo, al culmine di un pomeriggio da dimenticare, Juan si infortuna e esce per una distorsione al ginocchio. Un altro brutto problema, ma più piccolo di questo, che ha a che fare con l'anima: «Non mi era mai successo - dice amaro a chi gli domanda se fosse la prima volta -. Né a Roma, né in Germania o in Brasile».
Sembra più sconcertato che arrabbiato. Dice che quei «buu» non gli sono piaciuti; aggiunge che lui rispetta i tifosi della Lazio («Mi sono sempre comportato bene»); sottolinea la solidarietà ricevuta non solo dai compagni romanisti, scontata, ma anche degli avversari laziali: «Klose, Dias e Matuzalem mi hanno detto di stare tranquillo».
Alla fine la morale di Juan è doppia e doppia è la sua forza, che colpisce sia chi lo ha offeso, sia quello che genericamente chiamiamo Sistema: «Mi spiace più per quei tifosi che per me, perché io ho la personalità per restare tranquillo, e mi dispiace perché avevamo provato a far passare un messaggio positivo ai tifosi entrando in campo con la maglia contro il razzismo...».
E qui si torna al punto di partenza. Da una parte le iniziative, le parole, i proclami (puntualissime ieri diverse offerte di solidarietà da parte di politici sparsi). Dall'altra la routine razzista. Che non è solo italiana (in Inghilterra la situazione di questi tempi è peggiore) e che comunque non trova fine. Forse, come lascia intuire Luis Enrique, i problemi dentro gli stadi nascono fuori e arrivano dentro già formati e gravi: «Se dovessimo interrompere le partite non si giocherebbe più - dice lucido il tecnico romanista -. Io non credo che quella sia la soluzione. Anzi, non so neanche se c'è una soluzione...».
Probabile che abbia ragione, ma forse si potrebbe lo stesso tentare, senza nemmeno passare per gli avvertimenti degli speaker. O forse, finalmente, si potrebbe cominciare a tenere fuori i razzisti conosciuti dagli stadi. Magari non basta, o magari sì. Basta provare. Anche se richiede più impegno di una nobile maglietta.
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