Simone Canettieri per “il Messaggero”
Quaranta minuti. Un caffè insieme. Due photo opportunity: una nel salottino della Farnesina; l'altra sul terrazzo, cielo azzurro con il tricolore che garrisce al vento. E poi un'accortezza che a fine incontro sia Virginia Raggi sia, soprattutto, Luigi Di Maio tengono a sottolineare: «Non abbiamo parlato della ricandidatura a Roma».
LUIGI DI MAIO E VIRGINIA RAGGI
E allora cosa si saranno detti di bello la sindaca e il ministro degli Esteri, ex (ma mancano le prove) capo politico del M5S? Eppure l'incontro, nel quartier generale di Di Maio, è stato molto pompato fin dalla mattina, come evento politico di primo piano, a leggere le agenzie di stampa. Di ufficiale, escono solo i complimenti alla sindaca per la gestione dell'emergenza Covid-19 nella Capitale.
Allora, a quanto risulta a Il Messaggero, «Luigi» ha attaccato a testa bassa Nicola Zingaretti, segretario del Pd, che proprio su questo giornale ha bollato un bis di Raggi come «una minaccia per i romani». Ecco la difesa: «Le parole del segretario del Pd? Sono state un chiaro segnale di debolezza perché sta attraversando un particolare momento di difficoltà politica», dice Di Maio che ha considerato la stoccata del leader del Nazareno come «una grave ingerenza: si è intromesso nella vita politica di un altro partito». Cioè quella dei 5 Stelle che prima o poi dovranno pelare la gatta della ricandidature di Raggi a Roma e di Appendino a Torino.
LUIGI DI MAIO E VIRGINIA RAGGI
«Credo che in questa fase occorra pesare le parole: perdersi in attacchi politici non fa altro che alimentare il clima di tensione nel Paese», è il mood turbo-ecumenico del ministro. Pronto però a ribadire che «Virginia non sarà lasciata sola in quanto le uniche minacce con cui ha a che fare sono quelle che la costringono a vivere sotto scorta». Insomma, blindatura totale, ma nessuna esposizione diretta sul dibattito del bis. Con una consapevolezza affidata ai collaboratori: «Roma è la Capitale di tutti e tutti, al di là delle differenze politiche, dobbiamo lavorare per il bene della città», si chiudono così i ragionamenti di Di Maio.
Consapevole di giocare, come un attaccante vecchio stile, sulla linea del fuorigioco: far vedere a tutti che rimane un faro «imprescindibile» del Movimento (da qui la cerimoniosità del vertice di ieri), stando attentissimo a non commettere passi falsi. Visto che c'è un capo politico, Vito Crimi, e a lui spetterà l'ultima parola sulle comunali dell'anno prossimo.
LUIGI DI MAIO E VIRGINIA RAGGI
Di sicuro Raggi ha fretta. Chi le sta vicino confida: «Se ci deve essere questo via libera su Rousseau al bis deve avvenire in tempi celeri». Quando? «Al massimo entro l'estate», spiegano fonti molto qualificate vicine al «caso Roma».
Ma questa partita si intreccia però su un tema molto più vasto: quello della fine per tutti - a partire dai parlamentari - del vincolo del secondo mandato. Un'opzione che trova Davide Casaleggio, proprietario della piattaforma e custode dell'ortodossia paterna, contrario. Racconta chi lo ha sentito in questi giorni: «Davide non ci dorme la notte alla possibilità che salti anche questo vincolo».
I TIMORI
Ma sembra una scelta obbligata, altrimenti il M5S si troverà in futuro - in caso di ritorno anticipate alle urne - senza più l'intera classe dirigente, arrivata all'ultimo giro di boa. Tutti fuori, eccetto Alessandro Di Battista. Il timore della parte milanese del M5S, molto residuale in questo momento, è che «si usi Raggi come grimaldello» per scardinare l'ultima regola aurea dei pentastellati. Ecco perché è già iniziato un dibattito sulla possibilità di dividere le due votazioni: prima la deroga ai sindaci, poi semmai quella ai parlamentari, dopo il via libera degli stati generali. Di certo Raggi non ha tempo da perdere.
LUIGI DI MAIO E VIRGINIA RAGGI
E la tattica allusiva del «me lo chiedono tutti di ripresentarmi, ma adesso penso a Roma» rischia di aver, alla lunga, il respiro corto. Dunque, serve un'accelerazione. Auspicata dal Campidoglio, consapevole però di come il Movimento sia ormai una pentola in ebollizione. Dove i tatticismi sono all'ordine del giorno e tutti i big da Di Maio a Paola Taverna, passando per Roberto Fico - giocano partite diverse, ma rimangono uniti per non bruciarsi.
E poi c'è lui. «Anche io prima o poi dirò qualcosa», come racconta Di Battista a chi, prendendolo per il Mosè di Michelangelo, ma senza tirargli il martello, continua a chiedergli: «Dibba, perché non parli?».