Giorgio Meletti per il “Fatto quotidiano”
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C'è un dato che deve far riflettere. La multinazionale dell'acciaio ArcelorMittal, mettendo in cassa integrazione ordinaria per 13 settimane 1.400 dei 10.600 lavoratori dell'Ilva di Taranto, risparmierà 7-8 milioni di euro. Paragonate questa cifra con le altre di questa storia. Nel 2018 il gruppo ArcelorMittal ha fatturato quasi 70 miliardi di euro, con un utile netto di 4,5 miliardi. Lo stabilimento di Taranto continua a perdere un milione al giorno.
Tutti sanno che difficilmente quell'acciaieria tornerà a produrre utili prima di aver raggiunto una produzione annuale di almeno 8 milioni di tonnellate. L'obiettivo di portare a 5 milioni di tonnellate la produzione di quest'anno contro le 4,7 dell' anno scorso non sembra più raggiungibile, complice la fase bassa del ciclo siderurgico. In attesa di investire i 2,3 miliardi pattuiti con il governo per rimettere in sesto gli impianti e adeguarli alle norme ambientali, i manager mandati a Taranto dal Lakshmi Mittal, decidono di risparmiare 8 milioni. Per così poco lasciano cadere una bomba sulle già tese relazioni sindacali e sull'umore di Taranto.
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È lecito chiedersi perché l'abbiano fatto. La prima risposta è quella della semplice ottusità. L'ipotesi è poco convincente: Mittal ha costruito il più grande impero mondiale dell' acciaio venendo dall'India a trattare con i governi europei. In Francia si è preso l'Arcelor, fiore all'occhiello della siderurgia di Stato. La seconda ipotesi è quella di una mossa negoziale per mettere alle strette il governo italiano.
L'annuncio della cassa integrazione, come ha notato sul Fatto Francesco Casula, è giunto "a distanza di pochi giorni dall' avvio delle procedure di riesame dell' Autorizzazione integrata ambientale alla fabbrica ionica annunciata dal ministro dell' Ambiente Sergio Costa", che punta a imporre ai nuovi padroni dell' acciaio italiano prescrizioni severe e costose. Questa ipotesi è più sensata ma zoppica. È vero che, a quanto si dice, il signor Mittal in persona sta chiedendo invano da giorni un incontro a Di Maio, ed è anche vero che il ministro dello Sviluppo pare distratto dai numerosi altri impegni.
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Ma è il quinto ministro che si cimenta con il caso Ilva e Mittal ha firmato con lui accordi e impegni avendo avuto modo di prendere le misure alla sua credibilità e confrontarla con quella dei precedenti ministri. Inoltre è complicato convincersi che, dopo anni di confronto con la politica italiana, il magnate indiano abbia deciso di buttarsi nell'avventura di Taranto mettendo in preventivo da una parte un investimento di miliardi e dall' altra logoranti bracci di ferro a colpi di forzature e ultimatum con il governo italiano.
OPERAI ARCELOR MITTAL
Resta la terza ipotesi, la più assurda ma la più coerente con i fatti di questi anni: ArcelorMittal potrebbe non essere del tutto dispiaciuta di vedere la storia di Taranto sfociare nello sbaraccamento del centro siderurgico. È un' idea che alberga da tempo nei retropensieri di molti. Gli uomini di Mittal l'hanno sempre respinta come offensiva. Ciò che preoccupa davvero è lo scenario del mercato siderurgico.
IMPIANTO ARCELOR MITTAL
I produttori europei sono messi alla strette da una domanda in contrazione per il ciclo sfavorevole, mentre permane nel Vecchio continente una sovracapacità produttiva di 30 milioni di tonnellate all'anno. Da anni sull' Ilva di Taranto si aggirano gli avvoltoi della concorrenza europea: con 30 milioni di sovracapacità, perché dannarsi l'anima per rimettere in pista quegli 8-10 milioni di capacità italiana? E siccome anche ArcelorMittal faceva parte della schiera degli avvoltoi, rimane senza risposta da anni la stessa domanda: perché voler accaparrarsi gli impianti di Taranto promettendo investimenti miliardari? I più maligni hanno una risposta: per evitare che altri la rilanciassero davvero. Non resta che aspettare. Taranto chiede una prospettiva chiara da sette anni, rimane condannata ad attendere ancora.
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