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A.M. per Dagospia
L'Apocalisse c'è già stata: l'11 settembre 2001. Quindi da quella data nulla è più lo stesso: neanche noi. Così Moby che non è solo musicista e dj, né solo nipote di Hermann Melville che scrisse "Moby Dick" (da cui il nickname) e che per di più è nato proprio l'11 settembre (data nefasta per festeggiarsi), ha impugnato la macchina fotografica e fatto l'outing.
Perchè da sempre in realtà l'aspirazione artistica pura è la sua passione nascosta. Da quando lo zio che era fotografo per il "New York Times" un 11 settembre di molti anni fa gli regalò una macchina fotografica.
E poi sul rapporto fra fotografia e filosofia scrisse anche la tesi di laurea che sarebbe interessante leggere (ma non ci risulta pubblicata). Insomma, date queste premesse Moby ora ha deciso di presentare al mondo la sua poetica, come artista vero e proprio, anche se alcune foto erano già state esposte in occasione del lancio dell'ultimo album.
Qui però con "Innocents" alla Emmanuel Fremin Gallery di New York dal 14 ottobre saranno presentati i suoi lavori più complessi costruiti come un set cinematografico, ispirati a un gotico americano che lo avvicina a Tim Burton di "Alice" o alla serie tv "Tales from the Crypt" che deve aver visto da piccolo.
Opere dedicate non solo all'Apocalisse prossima ventura, quando le mutazioni genetiche avranno fatto il loro lavoro e saremo tutti mezza bestia e mezzo uomo, ma alle mutazioni psichiche che già l'attentato alle due torri ha provocato in noi occidentali.
«Percepiamo in modo diverso persino la foto di un supermercato dopo l'11 settembre. Eppure il supermercato è lo stesso» dice Moby che pone come prima materia di indagine del suo lavoro (anche musicale) proprio la psiche collettiva e le vibrazioni del nostro immaginario.
E prosegue: «Horror art? Neanche per sogno. Come si fa ad aver paura di una maschera? Io voglio provocare una reazione, è vero. Ma vorrei anche che chi reagisce si faccia qualche domanda sul perchè un pezzo di plastica modellato gli fa così paura»
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