Stefano Semeraro Per Specchio – La Stampa
don king tyson ali
Per i suoi capelli fulminati e antigravitazionali, da personaggio dei fumetti, Don King ha una spiegazione mistica: «Una notte stavo cercando di prendere sonno, quando ho sentito come un rombo nella testa.
Sono corso allo specchio e ho visto che i capelli erano diritti come frecce. Neanche il barbiere, il giorno dopo, è riuscito a farci niente: ogni volta che provava a tagliarli sentiva una scossa. Per me è stato un segnale divino, da quel momento ho capito che ero in missione per conto di Dio».
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I suoi biografi la fanno più semplice, parlano di un pettine e di un po' di lacca, ma guai a rovinare una bella storia con la verità, come raccomandano i vecchi del mestiere.
E comunque nel caso Donald King, per tutti Don, il manager di Ali e Frazier, di Foreman e di Tyson, il più grande organizzatore di boxe di tutti i tempi, l'uomo che riuscì a infilare Ali e Foreman nella notte di Kinsasha per The Rumble in the Jungle, il match più famoso della storia - cronaca e leggenda si confondono spontaneamente. Il prossimo agosto compirà novant' anni, da tempo è fuori dal grande giro.
A gennaio aveva in programma un paio di mondiali in Florida, perché nonostante l'età biblica Don è lucido, in gamba, teatrale e mistificatore come sempre - ma poi non se ne è fatto niente. Non è però uscito di scena, non ancora. Perché Don non è un tipo che molla. La sua vita non è iniziata esattamente a bordo ring, fra sigari e borse miliardarie, ma per le strade di Cleveland. Negli anni '50, in un'America dove fra neri e bianchi la distanza bruciava sulla pelle ancora più ferocemente di oggi, era nel business delle scommesse illegali.
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Prima «runner», galoppino che portava per conto del boss Tony Panzanello i pizzini con quote e puntate, poi allibratore in proprio, nello scantinato di un negozio di dischi in Kinsman Road e in altre «case» sparse per la città. Suo padre era morto quando Don aveva nove anni, caduto in una vasca di acciaio fuso, la madre vendeva torte. Il destino del ragazzo Donald sembrava una scommessa facile, e persa.
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A ventun anni il primo omicidio: stende a colpi di pistola - nella schiena - Hillary Brown, uno dei tre rapinatori che cercavano di svaligiare una delle sue sale. La corte lo assolve riconoscendogli la legittima difesa, ma nel 1966 ci risiamo. Sam Garrett gli deve seicento dollari e lui per convincerlo a onorare l'impegno lo ammazza di pugni. Letteralmente. L'accusa è omicidio di secondo grado, poi colposo, in totale fanno tre anni e undici mesi di galera al Marion Correctional Intitute, che King non sconta tutti, perché il Governatore gli concede un condono.
Don fa le cose sbagliate, ma conosce già le persone giuste. Uscito di prigione, prova a organizzare match di boxe e all'inizio non gli gira benissimo, i suoi pugili perdono quasi sempre.
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Poi il colpo di genio. Avvicina Muhammad Ali e gli organizza senza chiedere un soldo un incontro benefico in un ospedale di Cleveland. L'aggancio è fatto, la giostra è partita. Siamo a metà degli anni '70, la boxe non è la nicchia molto americana di oggi, con pochi divi stropicciati i cui match viaggiano via cavo.
È lo sport del momento e Ali il suo profeta globale. Tutti vorrebbero organizzare la sfida fra Il Più Grande e George Foreman, che detiene il titolo dei massimi dopo la prima sconfitta di Ali con Frazier, ma a riuscirci è King, che scuce i dieci milioni della borsa al dittatore dello Zaire, Mobutu. Il match è in calendario il 30 ottobre del 1974, per settimane King monta lo show perfetto, con Foreman a spasso nella foresta con il suo pastore tedesco e Ali che da Kinshasa arringa il mondo, mentre l'Africa gli chiede di uccidere («Ali Bumaye!») George, il nero cattivo corrotto dall'Occidente.
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Le televisioni impazziscono, intellettuali e vip fanno la gara per esserci. Ali trionfa all'ottavo round, nasce il più bel documentario sportivo di sempre, When We Were Kings, e il re ovviamente è lui, Donald, immortalato nella sua gloria tricotomica fra Ali e Foreman che si guardano in cagnesco. È la consacrazione.
Alto un metro e novanta, centoventi chili di peso, con la faccia da gangster, le giacche vistose trapunte di spillette e coccarde e una bandierina americana sempre in mano, King diventa il mammasantissima del ring. In galera, dice, ha studiato i classici, da Omero a Shakespeare, da Socrate a Hegel. Non sempre li usa per la causa migliore, ma la sua dialettica è bulimica, travolgente.
Nel 1975 bissa il successo di Kinshasa con The Thrilla in Manilla, il terzo match fra Ali e Frazier, nessuno può più ostacolarlo. Sostiene di essere il paladino della gente nera, ma razzola da bullo. Chi vuole sfidare i suoi pugili - e arriverà ad averne un centinaio sotto contratto - deve firmare una carta con cui in caso di vittoria lo nomina suo procuratore. Niente firma, niente carriera.
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«Io sono la dimostrazione vivente del sogno americano - spiega, sparando slogan come un rapper - Io sono l'esaltazione di questa grande nazione. Tutto è possibile in America, e solo in America».
Le stesse parole che userebbe Rocky Balboa, il signor nessuno diventato stella del ring interpretato da Sylvester Stallone e ispirato da Chuck Wepner, il peso massimo che rischiò di battere Ali in un match del 1975. Ovviamente organizzato da Don King. Dopo i match di Kinsasha e Manila, arrivano le sfide fra Leonard e Duran, dopo Ali e Frazier c'è Larry Holmes, che per King è stato il più grande: «nessuno ha mai tirato il jab come lui».
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Holmes finirà per mollarlo, ma King è una salamandra, rinasce ad ogni generazione e a fine anni '80 si reincarna nel mito di Mike Tyson, il campione che Don crea e, secondo molti altri, Tyson compreso, distrugge.
Una love story fatta di ko e miliardi, di ascolti tv schizzati alle stelle per i match con Holyfield, - quelli del morso all'orecchio - che dopo la caduta e il carcere di Iron Mike si trasforma in una faida giudiziaria.
Tyson sostiene che l'organizzatore gli ha rubato cento milioni di dollari, King evita il tribunale e patteggia per quattordici. «Ho scoperto che qualcuno che credevo fosse mio padre, mio fratello, era il vero Zio Tom, il vero traditore», urla Mike. «Ha fatto più male lui ai pugili neri che qualsiasi organizzatore bianco nella storia della boxe. Pensavo fosse il mio fratello nero. È solo un uomo cattivo, che non sa amare nessuno».
King sorride, ma non si fa cadere nemmeno un briciolo di cenere dal sigaro, ne esce citando i classici. «C'erano troppi Jago attorno a Mike, gli hanno sussurrato all'orecchio mille bugie, mille falsità. E lo hanno rovinato, convincendolo che ero io il suo nemico. Ma guardate quello che ha fatto con me e quello che ha fatto dopo, e capirete chi sono i suoi veri nemici. Si lamentava: "se parlo male di te mi coprono di soldi, se gliene parlo bene non mi ascoltano". Prendi i soldi Mike, gli ho detto».
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I pugili passano, King resta. Enorme e inafferrabile, mago della comunicazione, sciamano dell'incasso. «Quando lo intervistavo - racconta Dario Torromeo, l'ultimo grande giornalista-suiveur della boxe in Italia - ascoltava le domande e poi si lanciava in un rap in cui metteva in filo la comunità nera, i grandi scrittori, l'America.
Finiva ogni verso con una risata, e immancabilmente mi chiedeva di salutargli Berlusconi. Una volta l'ho visto scolarsi tre quarti di una bottiglia di vodka e ho creduto sarebbe morto durante l'intervista». In cinquant' anni di attività, King ha promosso oltre cinquecento incontri - compresi sette dei dieci più visti in pay-per-view - per un totale di tre miliardi di dollari, intascando cinquecento milioni, più di uno speso per la sua collezione di cinquemila orologi.
«Don King sembra nero, vive da bianco e pensa in verde», ha detto di lui Larry Holmes, alludendo al colore dei dollari. «È sempre stato più bravo a promuovere se stesso che i suoi pugili», sostiene l'ex massimo leggero Steve Cunningham, che lo conosce bene avendoci lavorato insieme per quasi dieci anni.
Per avvocati non è andato solo con Tyson, ma anche con Ali, Holmes, molti altri. Terry Norris nel 1997 gli ha chiesto settanta milioni di dollari di danni (ottenendone sette e mezzo) come risarcimento per un contratto-capestro, ma nessuno ha avuto una scuderia come la sua.
donald trump, larry holms, don king and mike tyson
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Nel 1999, insieme con il rivale di sempre, l'altro novantenne Bob Arum, ha organizzato l'ultimo grande match del Novecento, Oscar de la Hoya-Felix Trinidad, The Fight of Millennium, a Las Vegas, per la riunificazione dei titoli Wbc e Ibf dei welter. A oggi il suo ultimo evento resta la sfida fra Bermane Stiverne e Deontay Wilder, per il titolo Wbc dei massimi, nel 2015. Mai però darlo per finito. Mentre lui si avvia ai novant' anni, è la boxe a mostrare le rughe più profonde. «Il match tra Ali e Foreman a Kinshasa è stata la cosa più grande che abbia fatto nella mia vita», sostiene. «L'orgoglio del popolo nero. Siamo come il pugilato, usciamo a testa alta dalle guerre che ci fa il mondo. Oggi non ci sono più grandi pesi massimi, e i pugili non sono seri come quelli di un tempo. Vogliono vedersi nei titoli e, quando tu li esalti e ne parli bene, pensano che sia tutto scontato e che non devono metterci niente di loro. Credono che tutto gli piova addosso dal cielo. Io dico: torniamo indietro, alle tradizioni. Restituiamo il pugilato ai grandi personaggi. Solo così riconquisteremo il mondo e vedremo un nuovo Ali». I tempi di Frazier, Foreman, Ali, delle sfide che tenevano alzate di notte tre generazioni, sono finiti. Chissà se rivedremo un personaggio come Don King. Nel frattempo, e con un po' di anticipo, buon compleanno, Mister Boxe.
donald trump con don king e barbara walters
foreman ali ali foreman Ali si aggira sul ring dopo il ko di George Foreman