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    TUTTO IL MONDO E' PAESE: SI IGNORA IL COVID IN NOME DEGLI AFFARI – DOPO I CASI DI CONTAGIO SUL MONTE EVEREST, IL NEPAL MINIMIZZA: "SOLO UN PO' DI TOSSE". IL GOVERNO FATICA AD AMMETTERE L’EVIDENZA PER EVITARE UNA CATASTROFE ECONOMICA PER IL PAESE. NEL 2019, IL GOVERNO DEL NEPAL INCASSÒ QUASI 2 MILIARDI DI EURO GRAZIE AL RILASCIO DI VISTI D'INGRESSO E DI PERMESSI PER SALIRE SULL'EVEREST. MA L'ANNO SCORSO FU COSTRETTO A SOSPENDERE OGNI ATTIVITÀ, REGISTRANDO UN TRACOLLO DI ENTRATE…


     
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    Carlo Pizzati per "la Stampa"

     

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    Agenzie di spedizioni in alta quota, medici e alpinisti hanno subito pressioni per nascondere i contagi che hanno causato la sospensione di dozzine di ascese sulla vetta più alta del mondo. Nel 2019, il governo del Nepal incassò quasi 2 miliardi di euro grazie al rilascio di visti d'ingresso e di permessi per salire sull'Everest. Ma l'anno scorso fu costretto a sospendere ogni attività, registrando un tracollo di entrate. Così, quest' anno, Kathmandu ha rilasciato un record di permessi per recuperare le perdite: 408 licenze d'ascesa.

     

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    Ecco perché ora il governo fatica ad ammettere l'evidenza: il Covid ha raggiunto da molte settimane la vetta più alta della Terra. Qual è il problema nell'ammettere che il coronavirus si è infiltrato al campo base e si sta trasmettendo anche nella tendopoli di alpinisti accampati sul tetto del mondo? Che se viene stabilito che la pandemia blocca la possibilità di completare la spedizione, poi gli ascensionisti stranieri possono chiedere una proroga del loro permesso, che costa singolarmente quasi 10 mila euro, oltre ai 110 euro del visto. Se si accumulano alpinisti che quest' anno non possono salire, ma che reclamano di farlo senza bisogno di rinnovare il permesso l'anno prossimo, c'è il rischio che nel 2022 l'affollata montagna si intasi ancor di più. Senza alcun incasso aggiuntivo.

     

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    Tamponi sospetti «Si tratta solo di polmonite» o «la tosse è normale in alta quota» sono due delle reazioni ufficiali più comuni da parte delle istituzioni nepalesi, quando vengono confrontate con l'evidenza dei contagi da coronavirus. «Ma non possiamo certo rinnovare i permessi di ascesa solo sulle basi di voci di contagi da Covid-19», ha dichiarato Rudra Singh Tamang, direttore generale del dipartimento del turismo del Nepal. «Che le loro spedizioni siano state annullate per il Covid-19 resta tutto da dimostrare». Per un pugno di dollari, insomma. Eppure, le testimonianze e le prove abbondano. Come quella di Jangbu Sherpa, trentottenne che lo scorso aprile si è trovato a guidare una costosa spedizione il cui obiettivo era di portare in vetta un ricco principe del Bahrein. Arrivato oltre i 5.300 metri, i sintomi della guida nepalese sono peggiorati al punto che un elicottero ha dovuto trasportarlo all'ospedale di Kathmandu, dov' è risultato positivo al tampone. Dopo appena una settimana di ricovero e un'altra settimana a casa, è tornato al campo base per la missione «principe in vetta», perché senza di lui si rischiava di dover sospendere l'ascesa, perdendo migliaia di euro. Nessuno tra le guide e i portatori poteva permettersi un danno del genere dopo un 2020 senza lavoro. Così, l'11 maggio, assieme ad altri 15 della spedizione, Sherpa è stato il primo caso conclamato di Covid-19 ad arrivare sulla cima dell'Everest. Ma non è stato l'unico. Almeno altri 60 alpinisti contagiati, anche se spesso asintomatici, sono arrivati sulla cima, finora. Poiché è obbligatorio un test negativo per accedere al campo base, e vengono fatti test anche all'arrivo, i casi sono due: o chi è incaricato somministrare i tamponi viene corrotto, oppure molti alpinisti sviluppano la tracciabilità del contagio quando sono già oltre il campo base, in marcia verso l'alto.

     

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    Costretti all'abbandono Su 400 alpinisti che hanno tentato l'ascesa quest' anno, già il 50 per cento ha dovuto abbandonare l'impresa, sia a causa del contagio da Covid-19, sia per un ciclone che ha causato una pericolosa tempesta di neve sull'Himalaya. Tra quelli che hanno dovuto ritirarsi c'è anche il primo caso di contagio al campo base, quello del norvegese Erlend Ness che ha dedicato tre anni alla preparazione, spendendo 40 mila euro in permessi, guide ed equipaggiamento, fondi che non gli verranno certo rimborsati. E c'è anche chi, come Lukas Fuertenach, dell'omonima agenzia di spedizioni, ha chiesto la proroga del permesso per due anni, in attesa che il governo del Nepal ammetta l'esistenza di casi epidemici sull'Himalaya. In vetta tra rischi e virus Rojita Adhikari, positiva al tampone poco dopo aver lasciato il campo base, si è chiesta, sui social media: «Perché il governo nepalese nasconde la verità nonostante la comprovata evidenza del contrario?».

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    La verità è che in Nepal non può permettersi di ammetterlo. Circa il 3 per cento dei nepalesi sono vaccinati, i contagi sono 680.556, con più di 1.500 nuovi casi ieri, domenica, e inoltre i vaccini scarseggiano. E le entrate dal turismo d'alta quota contribuiscono all'8 % del Pil nazionale: rinunciarvi contribuirebbe alla catastrofe economica che peggiora sempre più in questa nazione himalayana. Quindi, nella morsa del brutto tempo, tra la minaccia dei sintomi e il rifiuto del governo di prorogare i permessi, sono sempre di più gli alpinisti che, pur se contagiati, decidono di andare avanti. Come Mario Celinic, croato risultato positivo al campo base che, dopo quattro anni di preparazione, non ha voluto arrendersi. Essendo asintomatico, ha deciso di rischiare: «Quella montagna è come un bel fiore che può ucciderti in qualsiasi momento. Ti attira. E devi venire qui, perché qui c'è la gloria. Ma oltre gli 8.000 metri sei disarmato. Sarà la montagna a decidere il tuo destino». Assieme al virus.

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