Giancarlo Dotto per il Corriere dello Sport
FONSECA
Ero allegro giovedì notte. Per la Roma, per i giocatori che avevano sputato l’anima in campo e per i suoi immedesimati, pazzi, unici tifosi che l’avevano sputata a casa, l’anima, sul piatto della pizza. Per tutti quelli che avevano, direttamente o indirettamente, un motivo per esultare, i giornali che vendono più copie, televisioni, radio e siti web che fanno più numeri e ascolti. Per il calcio italiano che conservava il suo strapuntino nell’élite europea.
Ma lo ero, allegro, soprattutto per lui, Paulo Fonseca, più che mai allenatore della Lupa, alla faccia di tutti quelli che già da settimane ne parlano al passato. Mi sembrava un esito, quella qualificazione, che si portava addosso il merito della giustizia, fate voi se divina o pagana.
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Ancora di più perché così sofferto, più bello che mai perché baciato, tra la Johan Cruijff Arena e l’Olimpico, da un’ispiratissima sequenza di “colpi di culo”, espressione convengo molto triviale, ma che rende l’idea. Insomma, ti senti sempre bene dentro, quando un uomo merita quello che riceve. Questo era Fonseca, giovedì sera all’Olimpico. Un uomo triste anche quando faceva i pugnetti a Dzeko che gli aveva appena spalancato il paradiso.
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Non c’è nulla di più malinconico al mondo di un portoghese malinconico. Si finisce prima o poi per somigliare al genius loci della terra che hai respirato, alla sua musica, alla sua letteratura. Il plagio più bello da subire. Paulo Fonseca sembra estratto da un manuale del fado. Un paio d’anni fa sono capitato in una Casa do Fado ad Alfama, il quartiere dei passi perduti di Lisbona, e c’era nella penombra un tipo molto ispirato che cantava, somigliantissimo a Fonseca. Non escludo che fosse lui. E, anche se non era, non importa, sarebbe potuto essere lui, in un mondo e in tempo parallelo. Il cantore di quelle cose che si portano dentro come una vaga, ma potente nostalgia, non si sa bene di che cosa.
Nemmeno lo storico passaggio in semifinale, lo scampatissimo pericolo dell’Ajax, e tutto il mucchio intorno di gente festante e svenuta intorno per la stessa felicità, inclusi i due americani in tribuna, padre e figlio, hanno cancellato dal suo volto quella mestizia. Che non è infelicità, ma il rumore dell’infelicità. Non riuscire a goderselo fino in fondo uno dei risultato sportivi più eclatanti della sua vicenda di allenatore oltre che dello zibaldone romanista.
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Paradosso unico a ogni latitudine, ma la normalità a Roma. L’allenatore che ti ha portato a un traguardo già storico, anche se dovesse interrompersi qui, ancora in ballo per un futuribile e plausibile trofeo che manca a Roma da sempre, è già declinato passato. Un dead man walking. E, a quanto pare, sarà così anche se quella sera, il 26 maggio, il portoghese dovesse ballare e ubriacarsi a Danzica, con la coppa in pugno e una malinconia moltiplicata addosso. Tutto già scritto. Non si sa da chi. Non si sa perché.
Strana storia quella del passaggio a Roma di Paulo Fonseca. Un allenatore che ha amato e ama questa città come pochi prima di lui, al punto di scegliere di abitare i uno dei suoi quartieri storici. Uno arrivato qui con la fama dell’integralista, alimentata anche dalle sue parole (“Ho un problema serio, non sopporto fisicamente vedere le mie squadre difendersi”) ma che ha mostrato in due anni una grande capacità di adattamento, la virtù più lampante e più utile dell’intelligenza.
La sua Roma non si è vergognata di difendersi giovedì sera, quando è stato chiaro che, per le assenze e tanti motivi, tecnici, tattici, atletici (i due pilastri della squadra, Miki e Veretout, nemmeno al cinquanta per cento) non aveva altra scelta. Hanno detto, scritto e insinuato da più parti che lo spogliatoio gli si era rivoltato contro, ma raramente si è vista una squadra, come nelle due partite con l’Ajax, giocare con tanta dedizione, per sé, per i tifosi, ma anche per il suo allenatore.
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Un allenatore che, in due anni, ha dovuto sopportare una quantità di problemi che avrebbero stroncato Zorro in persona, l’avatar in maschera di Fonseca. Il cambio di proprietà, direttori sportivi che saltavano come bottoni da una pancia ipertrofica, infortuni a catena, questa sì una roba diabolica. Senza quasi mai poter contare sul suo pezzo migliore, Zaniolo. Privato quest’anno anche del suo prediletto lenzuolo Smalling, fortissimamente voluto, più volte infortunato e ora anche rapinato. Un Fonseca che è andato oltre tutto, inclusa l’abituale caccia sadica dei media, quasi sempre in una condizione di solitudine vera, in parte stemperata adesso dall’arrivo del ragazzo connazionale.
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Dunque? La verità è che Fonseca non è mai stato l’allenatore di nessuno. Non lo è stato del Pallotta transfuga che lo ha voluto, non lo è dei Friedkin che non lo hanno scelto. Era l’allenatore di Petrachi, che è stato cacciato. Troppo poco ruffiano, troppo incomprensibilmente educato, troppo insopportabilmente elegante. Un uomo, Fonseca, di bell’aspetto ma dall’appeal poco evidente.
Va cercato, trovato, troppo faticoso di questi tempi. Non è mai stato l’allenatore dei media, troppo poco personaggio, né quello dei tifosi, troppo poco paraculo. Se Rudi Garcia, altro allenatore leggiadro e allenatore capace, era diventato un francese di Trastevere, grazie anche all’amore romano, logorato alla fine dai risultati e dalle bizze di Pallotta, il portoghese Fonseca e l’asturiano Luis Enrique sono passati come i due veri marziani a Roma, il primo per la sua poco intercettabile natura, il secondo per la sua etica inflessibile.
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Comunque andrà a finire, Fonseca è stato qui a Roma il figlio di nessuno. Sarebbe infinitamente bello e giusto che quella notte a Danzica, se Danzica mai sarà, almeno per una notte fosse il figlio di tutti.
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