Giancarlo Dotto per il “Corriere dello Sport”
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Alla fine di una storia così perfetta, così lussuriosamente romanista, che nemmeno il più viscerale tifoso (mediamente rassegnato alle 17 e 59 di domenica ad assistere alla riedizione in versione calcistica di un massacro epico, l’Olimpico invece che il Fort Apache, le aquile piuttosto che gli apache e Sarri nella famigerata parte di Cochise) avrebbe saputo nemmeno concepire, figuriamoci scrivere, ecco il colpo di teatro. L’invenzione che aggiunge alla serata perfetta il tocco e lo spiazzamento del demiurgo. Colui che non subisce gli eventi, ma li detta. Colui che non si fa consegnare il copione, ma lo distribuisce, casomai, agli amici e, possibilmente, anche ai nemici.
Josè Mourinho. Il gigante della storia, il protagonista assoluto di un derby stravinto, che fa? Ora schizza a rotta di collo nel mucchio selvaggio come il Mazzone di una volta sotto la Sud o come il se stesso, a sbracare nell’orgia di massa, a guadagnarsi il meritato trionfo, tutti pensano, tutti pensiamo. No. Sparisce quatto il geniale omarino all’apice della festa nella pancia dello spogliatoi, ben sapendo che quella era la mossa esatta da fare. Attimi di delusione, subito digeriti. Sì, quel demonio di Josè aveva fatto la mossa esatta.
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Scrivo “esatta” e non “giusta” perché la sfumatura di significato in questo caso è tutto. In precedenza, ne aveva fatto un’altra, mai vista prima in un campo di calcio. Quando sul 3 a 0, alla fine del primo tempo, zittisce feroce la Sud e i suoi olé. È lì che José, non contento di vincere, stravince. Non gli basta portare a casa un derby. Banale, già fatto. Sente il bisogno di governare anche i dettagli della storia, vuole essere autore fino in fondo. Non umiliare gli avversari quando sono già umiliati dal risultato e non rischiare di ammansire la tigre quando la vittima dà ancora segnali di vita.
Il tema aiuta a puntare una torcia grande così sul carisma selvaggio di questo uomo, da domenica sera definitivamente comprensibile. Come non lo era stato mai, nemmeno ai tempi gloriosi dell’Inter, del Chelsea, del Real o del Porto. L’intelligenza di per sé è una virtù sopravvalutata, molto spesso è una dote meccanica, tediosa, un’espressione biologica. Cosa la rende unica e fascinosa nel caso dell’uomo di Setubal? Due cose su tutte. Il suo essere parte costituiva e necessaria di una vocazione da leader che sfiora l’allucinazione, senza mai diventarlo, perché il suo essere leader non è un inganno, non è un’impostura, si posa su fondamentali indiscutibili. L’altro aspetto magnetico della personalità di Josè è il suo rovescio oscuro e qualche volta inquietante, tipico dei leader settari. Guai a voltarsi contro.
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Abbiamo avuto 9 mesi per studiarlo da vicino. Josè fa le cose esatte, non quelle giuste, perché lui agisce in ogni singolo istante sulla base di un copione che ha inciso nella testa. Una partitura scritta nei dettagli. Ancora prima d’essere conseguenza di elaborazioni a tavolino, è l’effetto di un istinto primordiale. L’istinto degli sciamani. L’amore dei tifosi romanisti è incomprensibile (lo era fino a domenica) solo se lo leggi con le rotelle sciatte del buon senso. Ma come, allibiscono i modesti travet del ragionamento applicato, i tifosi se ne fregano dei risultati?
Ebbene sì, con Mourinho in panca, il tifoso romanista se ne frega del risultato. E sapete perché? Il suo risultato, la sua ubriacante vittoria ce l’ha già in tasca, tutte le volte che quell’uomo parla a nome loro. Non hanno bisogno di scriverci un saggio sopra per saperlo, i tifosi della Lupa. Per questi colori, per una città come questa, una guida carismatica che infonda orgoglio e appartenenza vale mille volte uno strapuntino Champions. Se poi arrivano serate come quelle di domenica, si salvi chi po’. Ecco perché se non c’è un mistero a Roma, nella città dei misteri, è quell’Olimpico sempre al massimo della capienza, anche quando gioca lo Spezia, quei tifosi in trasferta anche nelle bocche dell’inferno.
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Non sappiamo se Mourinho vincerà come hanno vinto Liedholm e Capello, ma sappiamo che già così, dopo nove mesi di vicende alterne, Josè è il più amato della storia giallorossa. Il più amato e il più rimpianto, ancora prima che ti dica addio. Si chiama lutto preventivo. La malinconia di dover perdere prima o poi qualcuno che percepisci indispensabile.
Limitiamoci ai suoi colleghi. Di solito vanno a braccio o recitando lezioncine a monte, quasi sempre banali altre volte con un minimo di qualità. Nessuno come Mou ha inciso il copione in testa. Nel quale copione c’è sempre impresso il suo marchio d’autore, il primato e la differenza del suo ragionamento. Quante volte lo abbiamo aspettato al varco alla fine di partite disastrose? Come farà adesso a presentarsi? Come farà a risultare credibile? Niente da fare, giocando di fino o di ramazza, Josè ce la fa, sempre suggerendo l’idea che lui è padrone del suo destino. Di più. Che è lui in persona a dettare il destino, nelle vittorie ma anche nelle sconfitte.
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Uno sciamano.
Il suo è stato un week end da manuale. Dalla stravagante conferenza stampa di sabato sera al fracasso del derby. Non ha sbagliato una mossa. Padrone totale della scena, ai limiti dell’esercizio sadico. Il conto alla rovescia delle domande. Messaggio: voi giornalisti siete qui a farmi perdere tempo, ma io ho altro da fare, devo tornare al mio derby da vincere. La replica a Zeman. Inesorabile. Dove la finezza non è dire: «Io che ho vinto tutto non rispondo a uno che non ha vinto niente», ma: «Come puoi pensare che io che ho vinto tutto risponda…». Un fuoriclasse. Un fenomeno da studiare.
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