la fiorentina sulla tomba di astori
Giancarlo Dotto per il Corriere dello Sport
Sì, proviamo a capire. Hotel Là di Moret di Udine. Domenica 4 marzo 2018. Davide Astori è trovato morto nella sua stanza. Arresto cardiaco. Una malattia silente del cuore. Se n’è andato come era vissuto, senza fare rumore. Davide è il capitano della Fiorentina, un ragazzo gentile e un bravo calciatore.
E’ passato per Cremona, Cagliari e Roma. Ha giocato 14 partite in Nazionale. Non si è mai fatto notare nel bene o nel male. Niente di trascendentale. Eccessi zero. Nessuno ricorda una sua parola fuori posto. Una protesta. Un gesto che non fosse nello spartito della buona educazione. La Roma era lo zenit della sua carriera, lo lascia andare quando avrebbe potuto e dovuto tenerlo e lui niente, ringrazia la Roma.
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Nessuno lo rimpiange mai più di tanto, ora tutti non smettono di piangerlo. Il suo cuore si è arrestato, non si arresta l’omaggio in tutti gli stadi italiani. Dediche struggenti, cori e striscioni ovunque, le facce attonite, gli occhi che buttano lacrime, le mani che mimano preghiere. Uomini e donne. Tutti scoprono Davide nell’attimo in cui scompare. Davide per tutti. Il numero 13, numero della sua maglia, diventa endemico. Il numero di tutti. L’arresto cardiaco di un ragazzo sconosciuto o quasi ai più diventa afflato cardiaco di una nazione. E’ tutta una grondante antologia di poetiche licenze, citazioni ricattatorie, musiche che sviscerano, Dalla e Jovanotti su tutti, il cuore che impazza come sinonimo fisiologico di morte e simbologia di amore.
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La morte improvvisa e crudele nel corpo di un atleta. Era già successo decine di volte. Taccola, Curi, Morosini. Ma niente di paragonabile. Un lutto senza fine. Una tempesta emotiva, difficile da capire. I precedenti non aiutano, la logica non regge. C’è bisogno di forzature clamorose nei rapsodi sparsi dei media per tenere in piedi la faccenda. Ingigantire l’epica di un ragazzo e di un calciatore normale. Palate di retorica. Si allineano le istituzioni del calcio. Micciché, presidente della Lega: “Astori, straordinario esempio di correttezza e lealtà sportiva dentro e fuori il campo”. La correttezza e la lealtà raccontate come doti che non sono di questo mondo. Fumisterie della parola. Il mistero resta.
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Un anno dopo. Lazio-Roma in notturna all’Olimpico. Minuto 13. Nella mattanza nervosa del derby, tutto e tutti si fermano. Arbitri e giocatori. Applaudono i tifosi della Roma, e si può capire, ma anche quelli della Lazio. Applaudono in tutti gli stadi d’Italia, anche i beceri che fischiano e insultano ogni cosa che respira (non tutti, si sa, ci sono beceri che si alimentano del lutto altrui. Che sia Superga o Astori. Avvoltoi. Sciacalli). Sì, proviamo a capire il perché di un lutto così ostinato. Un dolore privato che diventa il dolore di tutti, oltre la cerchia degli aventi diritto, la compagna, la figlia, i parenti, gli amici, persino oltre quella dei tifosi. Siamo tutti davvero ossessionati dalla perdita di Davide Astori o che cosa?
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La viralità spiega, ma non esaurisce. A voler essere cinici e basta, facile raccontare di un contagio invisibile che riduce la massa a diligenti soldatini di un dettatura invisibile che diventa dittatura, che arriva non si sa dove. Un caso di suggestione collettiva. Un’ipnosi di massa. Il pifferaio magico di Hamelin non avrebbe saputo fare di meglio.
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La prima clamorosa manifestazione di lutto virale fu la morte di Lady Diana. Tutti inconsolabili. Per settimane intere il mondo era diventato una gigantesca, isterica sacca di orfani. Dopo due mesi, tutto finito, dimenticato, tutti consolabili. Un anno dopo, solo stanchi rituali. La morte di Fabrizio Frizzi. Ecco il paragone che regge. Bravi ragazzi entrambi, Fabrizio e Davide, il figlio e il fidanzato che tutte vorrebbero avere, ma Frizzi era pur sempre una faccia nazionalpopolare. Ci sta un po’ di strazio collettivo. Ma Davide? Un ragazzo quasi invisibile. Sì, vero, il suo lutto finisce incastrato nella ritualità dei numeri, il 13, e dei nomi, Davide. Anche questo spiega, m anche questo non basta. C’è di più.
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Proviamo a dirlo, un po’ perché ci crediamo e un po’ perché c’illudiamo che sia vero. Spiegare perché questo lutto non è una bufala. Accade, nel caso di Astori, una traiettoria anomala, che accende una speranza per chi è convinto che il post-umanesimo non sia una strada senza ritorno. Una specie d’inversione della rotta. Il lutto diventa virale, rischia il conformismo, è più di un rischio, l’astrazione dei processi gregari via social, ma poi in qualche modo si rianima, torna, come una ribellione, a collocarsi nella sua sede naturale, i cuori della gente.
Ridiventa empatia. E questo, forse, perché, tutto parte e torna dai cuori speciali di quella tribù speciale che sono i tifosi della Viola, dalla loro morbosità unica quando si tratta di amare. E, aggiungo, nello sfondo, silenziosa ma riconoscibile, la dignità infinita della vedova Francesca e della figlia Vittoria.
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