Giovanna Cavalli per il “Corriere della Sera” - Estratti
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«Col primo gruppo ci chiamavano Le Calamite, imitavamo i Beatles, stessi capelli a caschetto. Li asciugavo a testa in giù e li schiacciavo col cappello. Eravamo bravi, ci sapevamo fare con le voci. Suonavamo al pub Demetrio di Pavia, nel pubblico — me lo ha raccontato lei — c’era una Maria De Filippi ragazzina».
Al Paips di Milano.
«Locale piccolo, ma faceva tendenza. Dividevamo il palco con i Deep Purple, che ancora non erano nessuno. Tre quarti d’ora noi, tre quarti loro, ci scambiavamo gli strumenti.
Una sera capitò un ragazzetto di colore che si mise a suonare il piano del mio tastierista, che dopo averlo sentito pensò di smettere. Era Stevie Wonder».
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In tour con Dalla.
«Magari. Facevo l’attrezzista del suo bassista, amico mio. “Fai finta di portarmi gli amplificatori così intanto passi l’estate”. Un giorno ero salito sul palco a provare il microfono. Arrivò Lucio. “Ehi che fai? Mi porti via il lavoro?”. È stato il più bravo di tutti, musicista e poeta».
Primo Sanremo nel 1973 con «Vado via». Ultimo. Ci rise su come Tananai?
«Per niente, ci restai malissimo. La canzone era stata scritta per Mia Martini, io avevo inciso soltanto un provino per sentire come veniva. Poi Mimì decise di rinunciare al Festival. “ Nun ce vojo annà ”. Era un’amica, non mi ha mai spiegato perché. Rimase un buco. “Mandiamoci lui”, insistette Lucio Salvini, il mio discografico. Quando alla Ricordi videro la classifica finale ci fecero un mazzo tanto. Ma poi sei mesi dopo ho avuto la mia rivincita: 9 milioni di dischi venduti, è stata cantata in 26 versioni, pure dagli Abba».
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Volò a Parigi.
«Grazie a una santa di nome Ariel, direttrice della Rca francese. Mi mandò in tv. C’erano Henry Salvador, Mireille Mathieu. Johnny Hallyday, Charles Aznavour. Io. Per tre giorni ho dormito sul divano di Ariel. Poi mi hanno spostato all’hotel dei ricchi».
Dove di sera, nei corridoi...
«Julio Iglesias girava nudo con indosso solo l’accappatoio e ogni volta che incrociava qualche vecchia americana lo apriva di scatto gridando “ Ole! ”. Io ero con lui e mi vergognavo come un cane».
Incontrò Paul McCartney.
«A Londra, a cena, mi ignorò. Vent’anni dopo l’ho rivisto a Los Angeles, mi scrisse una dedica: “Al quinto Beatle”. Mi sa che lo faceva con tutti».
maria de filippi c e posta per te
Diventò famosissimo.
«Ci arrivai tardi. Non potevo più uscire per strada, mi inseguivano dovunque. Anche i paparazzi. Uno si appostò fuori dall’asilo di mio figlio, la maestra mi chiamò preoccupata che fosse un rapitore. Lo rincontrai in ascensore a Saint Vincent. Bloccai la cabina. Fui molto convincente».
Follie varie?
«Partivano in pullman dalla Polonia per venire a vedere il giardino di casa mia. A un semaforo il tizio davanti a me inchiodò di colpo, saltò giù e mi chiese l’autografo».
Donne come un marinaio.
«Mi ero innamorato di Dorina, non valeva la pena rovinare tutto per un’avventura».
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Ha una criniera niente male, inconfondibile, da quant’è che non la taglia?
«Forse l’ultima volta avrò avuto dieci anni. Il nonno, che aveva fatto la guerra, mi raccontava dei tedeschi, scarponi pesanti e capelli rasati, il taglio corto per me divenne sinonimo di cattiveria. Non li curo troppo, crescono come la gramigna».
Canta spesso all’estero. Come diventa Drupi?
«In inglese è “Drupai”, in francese “Drupì”, altrove va a fantasia. Questo cavolo di nome mi stava proprio sulle balle — era un folletto della recita scolastica — fu il mio discografico a insistere e ha avuto ragione, ormai ci ho fatto pace».
La si vede poco in tv.
«Una mia scelta, ho detto di no tante volte, alla fine non ti chiamano più. Vado se c’è da suonare e da parlare di musica. All’ Isola dei Famos i prenderei tanti pesci ma perderei la mia dignità per sempre, tutto il giorno in mutandoni a raccontarsi stronzate, giusto se mi pagassero 3 milioni».
julio iglesias
Le chiederanno: «Drupi, ma che fine hai fatto?»
«Si, capita, se non vai a Sanremo nessuno si ricorda di te, però ho uno zoccolo duro di ammiratori, al teatro Lirico Gaber di Milano ho fatto sold out, sono venuti anche i miei amici Dario Ballantini e Enzo Iacchetti, che è salito sul palco a cantare con me Sereno è ».
Quando vi vedete?
«Vengono loro a Pavia, io non mi muovo da qui, sono un orso. Enzino ha sempre il beauty pieno di medicine, è un ipocondriaco tremendo, come quello del film di Verdone, nella tasca del cappotto nasconde una piccola farmacia “perché non si sa mai”».
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E basta? Lazza, Annalisa, Mahmood?
«Prodotti ben fatti, però musicalmente non mi dicono nulla. Mahmood è bravo, ma della sua canzone a Sanremo non si capiva un’acca. Ho pensato: “Che audio del menga”.
L’ho scaricata e sono rimasto come prima. Le canzoni di Annalisa sono quattro accordi in croce che non mi emozionano. Massimo rispetto, eh. Le ballate di Vasco Rossi invece ti toccano il cuore. I testi di Gino Paoli: semplici, chiari».
La «piccola e fragile» della canzone è sua moglie, state insieme da 51 anni.
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«Era una mia corista. Che poi fragile proprio no, ha il suo bel caratterino. Come resistiamo? Se tratti l’altro come te stesso, se lo ascolti, non è difficile».
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