Marta Serafini per il "Corriere della Sera"
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«Abbiamo applaudito quando gli Hellfire sono caduti sulle loro teste». La notte del 21 agosto 2013 Salim bin Ahmed Ali Jaber e Walid bin Ali Jaber si trovano in un palmeto nel Sud-est dello Yemen.
Salim è un imam che si è fatto un nome denunciando il crescente potere di Al Qaeda nella penisola arabica. Suo cugino Walid è un ufficiale di polizia locale. I due sono sulle tracce di un gruppo di jihadisti. A migliaia di miglia di distanza, nella base di Bagram in Afghanistan, Daniel Hale, giovane specialista dell'intelligence dell'aeronautica americana, se ne sta seduto ad osservare il monitor di un computer. Poi, sul palmeto cala una pioggia di missili.
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Avanti veloce di otto anni. Hale oggi conoscerà il suo destino: molto probabilmente la Corte distrettuale di Alexandria, in Virginia, lo condannerà. Ma il verdetto non sarà per aver provocato la morte di due innocenti. Hale sarà giudicato per aver fatto trapelare documenti top secret sull'utilizzo di droni nella guerra al terrorismo durante l'amministrazione Obama.
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Figlio di un camionista battista della Virginia, da analista dell'intelligence dell'Air Force degli Stati Uniti, Hale, 33 anni, ha partecipato a una serie di attacchi condotti dalla base di Bagram a partire dal 2012.
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Il suo compito, rintracciare i segnali dei cellulari collegati a persone ritenute combattenti nemici. Fondamentale dunque per stabilire la posizione esatta dell'«obiettivo». Assiste a decine di operazioni in cui afghani - ma anche yemeniti o pachistani - vengono uccisi premendo un bottone.
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«Nessuna di quelle persone era responsabile degli attacchi dell'11 settembre alla nostra nazione. Era il 2012, Bin Laden era già morto in Pakistan», scrive in una lettera di undici pagine indirizzata al giudice.
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Con il passare del tempo, la coscienza di Hale inizia a vacillare. Alla fine del 2015 rivela i dettagli sulle operazioni coi droni a un giornalista investigativo. E il sito investigativo The Intercept pubblica i Drone Papers, inchiesta che ha dimostrato come il programma dei droni non fosse così preciso come sosteneva il governo.
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Gli avvocati di Hale - che dopo essersi dichiarato colpevole il marzo scorso rischia oltre cinque anni di condanna - chiedono un alleggerimento della sentenza a un massimo di 18 mesi. I pubblici ministeri affermano però che i documenti fatti trapelare da Hale hanno aiutato i miliziani dello Stato Islamico a evitare la cattura come dimostra un archivio rintracciato in Rete.
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Ovviamente il caso Hale ha ridato vigore al dibattito sull'Espionage Act, controversa legge del 1917 ora utilizzata per imbastire accuse contro le fughe di notizie che hanno a che fare con la sicurezza nazionale. Un caso su tutti quello della whistleblower Chelsea Manning.
Ma soprattutto la vicenda Hale porta alla luce la questione delle vittime collaterali. Secondo il Bureau of Investigative Journalism il numero totale di morti causate da droni e altre operazioni sotto copertura in Pakistan, Afghanistan, Yemen e Somalia è compreso tra 8.858 e 16.901, dal 2004 ad oggi.
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Di questi, ben 2.200 civili, tra cui centinaia di bambini e alcuni cittadini statunitensi, compreso un ragazzo di 16 anni. «Nemici uccisi in azione», la dicitura. In realtà si tratta di una stima al ribasso. Ed è stato solo dopo anni di pressioni - e sulla scia dei Drone Papers - che l'amministrazione Obama nel 2016 ha introdotto nuovi requisiti per la registrazione delle vittime civili in operazioni segrete di antiterrorismo. Tuttavia Trump ha revocato il provvedimento, lasciando l'opinione pubblica ancora una volta all'oscuro su chi esattamente venga ucciso e perché.
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