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Riccardo Staglianò per “il Venerdì di Repubblica”
La scena più tremenda, nel film soft-horror che questa città è diventata, si materializza verso le sette di sera di un ordinario venerdì. Sotto alle vetrine piene di Rolex di Tourneau, nel baricentro commerciale di Market Street, c'è un uomo che striscia, a scatti, come tarantolato, con metà sedere fuori dai pantaloni e la faccia nell'angolo tra marciapiede e parete del negozio.
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Un poliziotto lì vicino non fa niente, come non faccio niente io tranne restare pietrificato, né i passanti evidentemente abituati allo spettacolo. Quella stessa mattina, alla fermata Powell della metropolitana (come dire Piazza di Spagna o Montenapoleone) un altro vomita e barcolla pericolosamente sporgendosi sui binari.
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Nel pomeriggio, la vicinissima South of Market è una piazza di spaccio a cielo aperto, con tante tende di polipropilene azzurro, quello delle buste dell'Ikea, piene di esseri al grado zero dell'umanità. Come un campo profughi qualsiasi, se il campo profughi fosse però pieno di tossici all'ultimo stadio e si trovasse nel cuore di una delle città più oscenamente ricche del pianeta. Qui, l'anno scorso, i morti per overdose sono stati più del doppio di quelli per Covid (697 contro 257).
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A dicembre la sindaca ha dichiarato, non senza polemiche, lo "stato di emergenza" per il Tenderloin, la zona più centrale e più disastrata. Che oggi ospita il Linkage Center, un grande recinto dove i messi peggio ricevono il naloxone, una specie di metadone, in un tentativo disperato di non farli andare all'altro mondo. Noi, i ragazzi dello zoo di San Francisco potrebbe essere il seguito americano del film che colonizzò l'immaginario psicotropo dei ragazzi degli anni 80.
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COME SIAMO ARRIVATI A QUESTO PUNTO? TUTTO EBBE INIZIO CON UN FILETTO
Che questo quartiere abbia una meritatissima cattiva reputazione è notizia vecchia quanto il suo nome. Affibbiatogli, spiega un cartello del Tenderloin Museum, da un capo della polizia che - spedito a bonificare l'allora quartiere a luci rosse - commentò ilare che, dopo tanti anni di bracioline economiche, avrebbe finalmente potuto permettersi il filetto (tenderloin) grazie alle più laute mazzette.
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Prima la prostituzione, con le proto-battaglie per i trans, poi i migranti: qui la diversità è sempre stata religione laica. Che però spesso si tramuta in eresia immobiliare. Con tanti alberghi andati in malora e poi trasformati in Sro (Single room occupancy), dormitori per i poveri. Aggiungete istituzioni come la St. Anthony Foundation, una specie di Caritas, che sfama chiunque senza fare domande, e capirete perché tanti homeless l'hanno scelto come domicilio.
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L'esercito di nuovi ricchi, stanchi della sonnacchiosa Silicon Valley, ha fatto lievitare gli affitti, sfrattando la middle class e mandando per strada, in un Paese dove il saldo medio sul conto è di 5000 dollari, i meno attrezzati (vari studi sostengono che all'aumento dell'1 per cento sui canoni d'affitto corrisponde pari aumento di homeless). Bastano questi vecchi addendi a fare il totale odierno?
«No» risponde Katie Conry, antropologa nonché direttrice del museo su Leavenworth, una delle vie più acciaccate, che già alle dieci di mattina ha l'aspetto di un padiglione psichiatrico en plein air, «la novità è stata la pandemia che ha chiuso i ricoveri, ridotto la capacità degli Sro e tolto agli homeless molte delle strutture su cui avevano imparato a fare affidamento, come le biblioteche, dove magari caricare il cellulare, i bagni dei locali d'improvviso interdetti e altri luoghi che ne puntellavano l'esistenza. Dopo due anni in strada molte situazioni sono peggiorate e quello che vediamo è il risultato».
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Ricordate quanto ci ha messo psicologicamente alla prova il lockdown, nelle nostre belle casette riscaldate? Ecco, ora provate a immaginarvi di averlo trascorso all'addiaccio. Conry, come altri intervistati, non sa se il fenomeno è numericamente peggiorato (l'ultimo censimento di poco più di 8000 senza dimora è del 2019) ma concorda che è più acuto.
TASSARE I RICCHI PER UNA CASA AI POVERI
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Qualcosa, ovviamente, è stato fatto. «Il Comune ha affittato alberghi per trasformarli in shelter-in-place» mi spiega nel soggiorno adibito a ufficio Jennifer Friedenbach, direttrice della Coalition on Homelessness, «duemila posti rispetto agli ottomila che avevamo chiesto, pagati grazie a una legge che consente di tassare dello 0,5 per cento addizionale le fortune sopra i 50 milioni (l'ascetico Jack Dorsey di Twitter, con le sue sedute di meditazione, digiuni intermittenti, bagni gelati all'alba e patrimonio di 7 miliardi di dollari ha votato contro).
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Ma ciò non cancella la tendenza decennale a criminalizzare i senza casa, con 10-20 mila denunce all'anno che ricevono per occupazione di suolo o minzione in pubblico e i sempre più frequenti repulisti con tanto di confisca dei loro averi». Nell'aver intensificato questi sweeps si sarebbe distinta anche London Breed, la sindaca dello stato di emergenza. Eppure, se c'è una con la sensibilità giusta per capire il problema, dovrebbe essere lei. Nera, cresciuta nelle case popolari, con un fratello in carcere per aver ucciso la fidanzata (la spinse fuori dall'auto durante una lite) e una sorella morta di overdose.
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La ascolto alla Public Library mentre, accanto al carismatico Cornel West, decano dei black studies, ricorda che i neri sono il 5 per cento della popolazione ma il 40 per cento degli homeless. L'incontro finisce con un rinfresco e, nel tempo che impiego a trangugiare il mio panino su un marciapiede assolato, tre persone mi chiedono se e dove distribuiscono quei cestini. Imbarazzato per averne accettato uno, li dirotto all'interno dove entrano con la stessa foga dell'assalto a Capitol Hill.
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Non è folle, tutto questo? Sembra un pagina di La fame, il monumentale libro di Martin Caparros, ma invece che in Niger siamo tra la biblioteca e il municipio di una metropoli in cui il 57,4 per cento delle case vale più di un milione di dollari. La novità è che una bella fetta della piazza che separa le due istituzioni è oggi occupata da un campo recintato di tende per accogliere disperati di varia estrazione. E così, a dispetto della sua biografia, la sindaca ha mandato più polizia a pattugliare il centro e ha esternalizzato il controllo del territorio alla ong Urban Alchemy.
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Con le loro pettorine nere e verdi li vedi a ogni angolo. Generalmente neri, generalmente ex galeotti, generalmente impegnati in un'indaffaratissima ammuina, tipo chiacchierare tra loro, salutare i passanti e dare solenni quanto occasionali colpi di ramazza. Pare che vengano pagati sui 18 dollari l'ora, quanto il/la barista che cercano a The Market, il bell'emporio accanto alla sede di Twitter.
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Sono una soluzione, ma a un altro problema: quello del reinserimento dei carcerati, che poi magari diventano homeless, in quel perverso paso doble che Rebecca Solnit segnala su Harper' s, per cui i primi vivono fuori senza accesso a un dentro mentre i secondi vivono dentro senza accesso a un fuori ma entrambi «non hanno né privacy né un vero controllo sulle proprie esistenze».
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«UNA DISPERAZIONE COSì SOLO A MUMBAI»
Quello stesso articolo sfata un mito spesso ripetuto ("vengono a San Francisco da tutti gli Stati Uniti per la generosità dell'assistenza"): il 71 per cento viveva già qui prima di finire in strada e il grosso dei restanti viene dalla regione o dallo stato. E racconta come le ultime giunte abbiano intensificato la rimozione dei senza dimora sulle lamentele di aziende che non li volevano vicini.
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Ed è così, che con un simbolismo toponomastico tanto perfetto da sembrare inventato, a centinaia sono finiti a Division Street, zona piena di parcheggi e sottoponti buoni per le tende dei vinti da cui però si vedono nitidi i grattacieli della cittadella dei vincitori. È il regno di Robert Gumpert, il fotografo che ne ha ricavato un libro straziante e che, nella via crucis che ha ripetuto per sei anni, mi presenta Tucks. Ex carcerato, come tanti homeless, fa qualche dollaro riparando bici.
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L'ong Compass vorrebbe reclutarlo per una class action contro le confische del Comune ma lui non si fa illusioni. Non ho mai visto, né negli slum di Nairobi né nelle favelas brasiliane, mani così incrostate di uno sporco così materico che mi fa venire in mente i grumi di colore delle tele multimilionarie di Anselm Kiefer esposte al museo d'arte contemporanea a tre chilometri da qui.
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D'altronde quattro anni fa, al termine di una passeggiata in centro, la relatrice speciale Onu, Leilani Farha, aveva commentato che «l'ultimo posto dove aveva visto cucinare sul marciapiedi era Mumbai».«In quello spiazzo» indica Gumpert «per anni sono rimaste indisturbate decine di tende. Poi, da un giorno all'altro, sono state fatte sloggiare. Pare che Airbnb, che ha sede lì vicino, si fosse lamentata». Da qui si vede benissimo il loro enorme cartellone pubblicitario che dice "Gli stranieri non sono poi così strani", la cui versione video mostra tre creature pelose, tipo Chewbacca di Guerre stellari, che alla fine si trasformano in una bella famigliola. "Provate a ospitare", dice il claim. Tutti, ma i barboni non ospitateli nemmeno sul marciapiedi.
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TUTTA COLPA DELLA SINISTRA BUONISTA?
Critiche da sinistra Ztl, si dirà, che spalanca le braccia ai migranti nei quartieri degli altri. È il punto di vista di Michael Shellenberger, autore di San Francicko, pamphlet di successo su "come i progressisti rovinano le città". Rarissimo esemplare di abitante di Berkeley di destra, mi fa fare un mini-tour a Minna Street che, prima di costeggiare il Moma e altre destinazioni turistiche, è il massimo concentrato di luridi accampamenti di fortuna con spacciatori che ti guardano feroci: «Al 95 per cento è fentanyl, l'oppiaceo che ha rovinato tanti americani, magari mischiato con metanfetamine» dice ultimativo lui che pure è stato contestato per l'uso delle fonti (e infatti c'è anche crack e eroina).
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Contro un ampio consenso accademico per cui il problema degli homeless deriva essenzialmente dalla combinazione di redditi stagnanti e prezzi delle case fuori controllo, in un lungo arco che va da Reagan a Zuckerberg, Shellenberger sostiene invece che fuori controllo sono l'uso di droghe, le malattie mentali da ciò causate e il permissivismo liberal che consente l'una e l'altra cosa. «Immagini se a Roma, davanti al Campidoglio, vedesse una scena del genere: le sembrerebbe normale?».
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È l'unica frase su cui concordiamo. È del tutto anormale, ma come se ne esce? «Questa è gente che dà per scontato il diritto all'assistenza. Invece devono meritarsela, riprendere in mano le loro vite» taglia corto. Al netto dell'antipatia per la sua mancanza di empatia, illumina un dato di fatto.
Ovvero che tra il 2005 e il 2020 il numero di homeless qui è raddoppiato (siamo a uno sbalorditivo abitante su cento) mentre nel resto del paese si riduceva. E che sul totale, il 73 per cento è fuori da qualsiasi struttura o tetto in testa, contro il 3 di New York. Qualcosa è andato storto.
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Tipo che quelle tende nella Civic Center Plaza che ospitano 262 senza dimora costano ogni anno alla città 61 mila dollari l'una, ovvero 2,5 volte l'affitto mediano di un bilocale. Per Shellenberger sono i disturbati o i drogati che diventano homeless. Per EveryOne Counts, l'organizzazione che effettua i censimenti californiani, «la fetta più in crescita di nuovi homeless è di gente che ha ancora un'auto e ci dorme dentro perché non può permettersi un affitto».
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Tra le cause il 25 per cento cita la perdita del lavoro, il 13 lo sfratto e il 18 la droga. Solo l'8 per cento la malattia mentale. Ma, in oltre 300 pagine, Shellenberger intervista giusto un homeless. Il resto è Sturm und Drang culturale. i fantasmi di joan didion Il premio Fatti non opinioni di questa tornata va ad Adama Bryant. La trovo citata sul Washington Post descritta come ex homeless, con master in Business administration. In verità è stata ospite di varie strutture, in un periodo incasinato della sua vita, ma non ha mai dormito sui marciapiedi.
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Da dodici anni abita nel Tenderloin con i tre figli, di cui una psicotica, perché «è l'unico posto - orribile, con tutta quella gente che parla da sé e sbraita per strada - che posso permettermi». È cresciuta nello stesso project della sindaca e ricorda che la batteva a Monopoly: «È una brava persona ma non esistono misure che funzionino per tutti: se sfolli i senzatetto fai contenti i commercianti e scontenti gli altri».
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Lei, ultimo lavoro l'autista Lyft, si è inventata Weekend Adventures, una no profit che organizza gite nei parchi per i bimbi poveri del quartiere che negli ultimi mesi le paga un salario: «Oggi peggio che mai? Forse. Però trentacinque anni fa mio zio fu ucciso per strada. Tutto è relativo. Quanto ai vigilantes, sono ex criminali: perché dovrebbero aver voglia di mettersi contro sul serio gli spacciatori?». D'altronde già nel '68 Joan Didion scrive Verso Betlemme, il suo reportage più sofferto, tra ragazzi storditi dalla metedrina e adulti-zombie.
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La lezione di disfacimento che trae da Haight-Ashbury, qui vicino, vale per tutta l'America: "Il centro non reggeva più. Era un paese di avvisi di fallimento e annunci di aste pubbliche, di rapporti ordinari su omicidi involontari, di bambini nel posto sbagliato e famiglie abbandonate, di vandali che non sapevano nemmeno scrivere correttamente le parolacce con cui imbrattavano i muri.
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Le famiglie scomparivano regolarmente, lasciandosi dietro uno strascico di assegni scoperti e ingiunzioni di esproprio. Gli adolescenti vagavano da una città straziata all'altra, liberandosi di passato e futuro come i serpenti si disfano della pelle, ragazzi cui non erano mai stati insegnati, e ormai non avrebbero mai imparato, i giochi che avevano tenuto insieme la società".Lo sconforto di ieri vale ancora oggi. come i veterani L'interrogativo resta, gigantesco e inevaso: che fare? Più case a prezzi abbordabili. Lo dice Adama, sempre pragmatica.
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Lo ripete l'attivista Friedenbach: «L'investimento del governo Obama per i veterani ha funzionato, riducendo il rischio che finissero per strada. E non c'è neanche sempre bisogno di costruire ex novo: ci sono almeno 70 alberghi in centro pronti a vendere». Aggiunge Gumpert, il fotografo: «Sono state contate 40 mila unità abitative sfitte: è un lusso che non ci possiamo più permettere. Solo sistemazioni stabili, non tende, possono invertire la tendenza». Neppure la curatrice Conry si discosta granché: «Servono case per i residenti, non per i turisti Airbnb. E rivitalizzare anche i negozi che, se continuano a chiudere, lasceranno un quartiere fantasma».
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È una ricetta di applicabilità globale, che qui mostra già esiti estremi. Uniqlo, il negozio del cashmere democratico preso d'assalto dai visitatori italiani, ha chiuso. Banana Republic, Gap e Old Navy, secondo l'ordine censuario della clientela, appartengono allo stesso gruppo. Quelli che compravano da Gap, che nel frattempo ha chiuso le sue belle vetrine su Market Street, sono stati retrocessi da Old Navy. I veri ricchi si spingono due isolati più in là per un cardigan da 2.000 dollari di Brunello Cucinelli. Molti vecchi clienti di Old Navy ormai fanno l'elemosina per strada. O cambia qualcosa o il centro non reggerà.
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