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    ECATOMBE DI GIORNALI NEL MONDO: NEGLI USA UN QUINTO HA CHIUSO, E IL 47% DEI LAVORATORI È STATO MANDATO A CASA - LE ULTIME NOTIZIE DAL GRUPPO MCCLATCHY, PIÙ DI 30 TESTATE LOCALI TRA CUI IL PRESTIGIOSO ''MIAMI HERALD'', SCHIACCIATO DA UN DEBITO INSOSTENIBILE - LA FAMIGLIA NEWHOUSE, CHE CONTROLLA CONDÉ NAST, HA CEDUTO IL GRUPPO ''ADVANCE'' (40 TESTATE) A UN CONCORRENTE, E INVESTIRÀ 10 MILIARDI


     
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    Sergio Carli per www.blitzquotidiano.it

     

    Giornali in crisi nel mondo, è l’ecatombe. Cadono gli ultimi fortini sopraffatti dall’avanzata dei barbari di internet. Secondo un recente report, dal 2004 ha chiuso il 20% di tutti i giornali statunitensi, uno su cinque, e il settore ha perso il 47% del lavoro.

    Le ultime notizie da brivido riguardano il gruppo McClatchy (più di 30 giornali locali), che ha dichiarato bancarotta, e Advance (una quarantina di testate in tutto il continente, facente capo alla famiglia Newhouse), che ha venduto al concorrente diretto il quotidiano di New Orleans, gioiello della corona, pianificando però 10 miliardi di dollari di investimenti ben lontano dal mondo delle notizie.  

     

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    Per i giornali in America crolla la pubblicità, crolla anche la pubblicità su internet per le versioni online di quotidiani e settimanali. Il duopolio divora tutto. In Italia c’era il duopolio Rai-Mediaset, poi ''triopolio'' con Sky. Nel mondo ci sono Google e Facebook che controllano, in America, tre quarti del mercato pubblicitario.

     

    Nel 2010, le entrate totali per gli annunci stampa sono scese al di sotto dei livelli del 1950 e hanno continuato a diminuire. Commenta un esperto: “Tutti ritenevano che se avessi potuto semplicemente passare al digitale, le cose sarebbero andate bene. Ma il problema è che a partire dal 2015, Google e Facebook rappresentano circa il 75% di investimenti pubblicitari digitali in dollari nei mercati statunitensi”.

     

    Se non altro, in America, si presume che Google e Facebook qualche tassa la paghino. In Europa nemmeno quello. In Italia, quando il Fisco ci provò, l’allora premier Matteo Renzi si mise di traverso essendo poi ripagato col sabotaggio del suo referendum. Ora al loro fianco si è schierato anche il presidente Trump. Bella compagnia.

     

    McClatchy è un nome che dice poco in Italia ma il gruppo comprende più di 30 quotidiani in tutti gli Stati Uniti, con un fatturato complessivo di un miliardo di dollari. Il modesto utile operativo, poco sopra i 20 milioni che portava a una perdita di decine di milioni, arrivata a oltre 300 milioni con la svalutazione del goodwill delle testate, non era sufficiente a servire l’ingente debito che McClatchy si era caricato acquisendo un altro antico e importante gruppo, Knight-Ridder, che ha fatto la storia del giornalismo americano. Era il 2006, due anni prima che il fallimento della banca Lehman Brothers scatenasse la più grande crisi dopo il 1929, che da noi dura ancor oggi grazie all’intransigenza tedesca e agli errori dei governi Berlusconi e Monti.

     

    McClatchy comprò Knight Ridder ai prezzi massimi pre crisi, poi alla crisi del 2008 si è aggiunto l’irreversibile declino dei giornali e poi ancora quello della fetta lasciata ai concorrenti dall’eccessiva voracità di Google e Facebook.

    McClatchy ha annunciato che intende avvalersi della cosiddetta protezione prevista dalla legge fallimentare americana e nota come  “Chapter 11”. L’operazione porterebbe la famiglia McClatchy a perdere il controllo, ma porterebbe anche alla eliminazione di circa il 60 per cento dei 700 milioni di dollari di debiti, come fanno notare Taylor Telford e Thomas Heath sul Washington Post.

     

    La crisi di McClatchy, nota il WP, rappresenta “un altro segnale della sempre più profonda crisi dei giornali locali”:

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    Il capitolo 11 consentirà a McCaltchy di mantenere a galla i 30 giornali mentre ristruttura oltre 700 milioni di debito, il 60% dei quali sarebbe eliminato. Se il piano dovesse ottenere l’approvazione del tribunale, il controllo dell’editore verrebbe trasferito all’hedge fund Chatham Asset Management, il principale creditore. La società ha ottenuto 50 milioni di dollari in finanziamenti da Encina Business Credit per mantenere le operazioni mentre è sottoposta a procedura di fallimento.

     

    Il caso McClatchy, prevede il giornale di Washington, prefigura un’ulteriore riduzione dei costi e il ridimensionamento per uno dei maggiori protagonisti del giornalismo locale, in un momento in cui la maggior parte delle redazioni statunitensi si stanno già sforzando per coprire le loro comunità tra il calo delle entrate pubblicitarie e la riduzione delle risorse.

    McClatchy, editore del Miami Herald, del Kansas City Star e di altri quotidiani regionali, è stato gravato dai debiti nel 2006 dopo l’acquisizione per 4,5 miliardi di dollari, di un concorrente molto più grande, Knight Ridder. L’associazione ha coinciso con un boom digitale che ha interrotto il prevalente modello di business e trasformato il modo in cui le notizie vengono consumate.

     

    mcclatchy miami herald mcclatchy miami herald

    I sentori sui problemi riguardanti il settore sono emersi alla fine del secolo, quando i prezzi delle azioni hanno iniziato a diminuire dalla vetta raggiunta negli anni ’90. Ma McClatchy ha superato meglio della maggior parte, le prime tempeste: alla fine del 2004, la società aveva registrato 20 anni consecutivi di crescita della circolazione, e il suo stock per 10 anni consecutivi aveva rappresentato il miglior guadagno nel settore.

     

    Poi è arrivata la Grande Recessione e lo spostamento al digitale che ha alimentato l’ascesa di Google e Facebook. I giornali annaspavano, lottavano per trovare nuove strade ed essere redditizi, a decine furono costretti a ricorrere al tribunale fallimentare o venduti a prezzi stracciati a gruppi di private equity, che ricoprirono un ruolo attivo nella gestione dei giornali.

     

    Ne derivò un inarrestabile taglio dei costi, che dimezzò quasi la forza lavoro del settore, passando da 71.000 del 2008 a 38.000 nel 2018, secondo il Pew Research Center.

    Fondata nel 1857, McClatchy era principalmente una società di quotidiani regionali fino a quando non ha aspirato a Knight Ridder. Nel 2005, McClatchy aveva meno della metà delle entrate di Knight Ridder. “Era il pesciolino che aveva inghiottito il pesce grosso”, si diceva all’epoca.

     

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    McClatchy, dunque, acquistando il vertice del mercato, ha pagato troppo per Knight Ridder e l’immenso debito assunto per l’acquisto sarebbe stata una pietra al collo della società. Inoltre, McClatchy è stato vittima di un tipico errore del clima predatorio e barbaro che troppo spesso rende cieche le grandi aziende: non ha mandato avanti nessuna divisione digitale o personale aziendale di Knight Ridder, nonostante la crescente importanza di Internet e Knight Ridder all’epoca aveva operato un rispettabile impegno.La strategia digitale della nuova compagnia sbagliò, ponendo troppa enfasi sulle notizie locali. Una delle ultime società di quotidiani regionali con uffici all’estero nel 2015 [eredità di Knight Ridder] ha sospeso le operazioni internazionali per concentrarsi sulla copertura politica e regionale.

     

    Un esperto ha detto:

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    “Grazie al fatto che sono in inglese, una lingua conosciuta e utilizzata in tutto il mondo, il Washington Post e il New York Times hanno raddoppiato le operazioni nazionali e internazionali che hanno portato il traffico online al di fuori di quelle città. Con un vasto traffico digitale puoi guadagnare. McClatchy aveva la stessa abilità con uffici nazionali ed esteri di 30 giornali e un ufficio di Washington che ha vinto un Pulitzer. Avrebbero potuto optare per ciò che hanno fatto The Post e il Times, ma hanno deciso di non farlo. Hanno privilegiato le notizie locali e ciò sta provocando la loro fine”.

     

    Meno strazianti per gli effetti ma impressionanti per il valore simbolico sono state due notizie riguardanti il gruppo Advance Publications. Anche il nome di Advance non dice molto in Italia, anche se si tratta di uno fra i primi gruppi in America, interamente in mano a una famiglia, i Newhouse. Suona però familiare il nome di una delle loro principali società, Condé Nast, presente anche in Italia con riviste come Vogue, Vanity Fair, Wired. Del canale tv Discovery possiedono un terzo del capitale.

     

    Advance ha un fatturato consolidato di oltre 2 miliardi di dollari e occupa 12 mila persone. Nel campo dei quotidiani è fra i primi in America, con una quarantina di testate locali. Tutto ebbe inizio con lo State Island Advance, circa un secolo fa, quando un giovanissimo ragioniere figlio di immigrati ebrei dalla Bielorussia comprò dal ricchissimo datore di lavoro a prezzo di favore la testata che perdeva tanti soldi e avrebbe dovuto essere chiusa.

     

     

    tina brown si newhouse tina brown si newhouse

    Fra i più importanti giornali del Gruppo c’era il Times-Picayune di New Orleans, vincitore di tanti premi Pulitzer, coperto di gloria ai tempi della grande alluvione. I Newhouse furono tra i primi a spingere sul digitale, nel 2012 tagliarono le edizioni su carta, gli organici da 260 a 70 ma alla fine si sono dovuti arrendere. Hanno venduto ai concorrenti di Advocate, che hanno fuso i due giornali, continuano con la carta, e con un sito internet molto focalizzato localmente.

     

    Al tempo stesso, informa Business Insider la famiglia Newhouse ha deciso di investire dieci miliardi di dollari per diversificare sempre di più dalla carta.

    Fra gli obiettivi ci sono satelliti artificiali, intelligenza artificiale, produzioni teatrali.

    Molti si domandano che fine farà un altro gioiello di famiglia, il Celeveland Plain Dealer, un giornale da 200 mila  copie al giorno, con punte oltre il mezzo milione la domenica, fra i 25 quotidiani più diffusi degli Usa.

     

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    Hanno tagliato i giornalisti di un terzo, hanno ridotto la consegna a domicilio a tre giorni la settimana. Negli altri giorni edicole, che sono pochissime, distributori meccanici e versione Pdf del cartaceo da comprare on line. Basterà? O sarà un altro buco nell’acqua? Forse qualcuno dovrebbe andare a Londra a studiare la strada percorsa dal Daily Mail, oggi il primo sito di notizie del mondo.

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