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In tribuna: a tifare per i suoi All Blacks. Poi testimonial: di aziende, di se stesso, del rugby tutto. Sempre inquadrato e ovunque intervistato. Sono trascorse poche settimane da Inghilterra 2015: che Mondiale sarebbe stato senza di lui? Sembrava in forma. Invece Jonah Lomu, in un mercoledì mattina qualsiasi di Auckland, Nuova Zelanda (nel cuore della notte europea), è morto all’improvviso. A 40 anni. Tradito da quei reni maledetti contro i quali ha combattuto per tutta la vita.
A rendere pubblica la notizia John Mayhew, ex medico dei tuttineri. Jonah, insieme alla famiglia (i figli e la terza moglie Nadene), martedì sera era tornato dal Regno Unito via Dubai, dove aveva trascorso alcuni giorni di vacanza. Sabato l’ultimo post su Facebook (di solidarietà al popolo francese), lunedì l’ultimo tweet.
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SIGNOR RUGBY — Soffriva di Sindrome nefrosica, una malattia rara che nel 2002, sostanzialmente, lo costrinse a interrompere la carriera anzitempo. Nel 2004 si sottopose a trapianto e da allora era in dialisi. Quattro anno fa, proprio durante la Coppa del Mondo di Nuova Zelanda 2011, trascorse giorni molto difficili. Con lui, oggi, si è spento il rugby. E tutto lo sport mondiale, che adesso lo ricorda con affetto e lo piange con tristezza. Perché Lomu, origini tongane e ala per eccellenza, è stato il rugby. Almeno il rugby moderno.
Quello degli ultimi vent’anni. Quello della svolta al professionismo. Non c’è stato giocatore più popolare o più riconoscibile. Una superstar globale. Per le cifre: 37 mete in 63 test match con la Nazionale nell’arco di otto stagioni (il primo, a 19 anni appena compiuti, nel 1994 contro la Francia, il più giovane esordiente della storia All Blacks).
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Ma soprattutto, dall’alto dei suoi 196 cm per 119 kg, per il modo di giocare: a velocità superiore (sprinter da 10”8 sui 100), di rara potenza, stendendo gli avversari come birilli. Ha dato il la a una nuova era. Cinque, di quelle 37 mete, le ha realizzate in tre partite contro l’Italia. Tutte vinte, naturalmente.
IL RECORD — Leggendarie resteranno le quattro firmate contro l’Inghilterra nella semifinale iridata di Sud Africa 1995, passando sopra Mike Catt come un carrarmato. Sette volte a segno in quattro match di quell’edizione, otto in quella successiva, a Inghilterra 1999. Il totale (15), è stato eguagliato dallo Springbok Brian Habana il mese scorso, ma non superato. Quel record resta ancora suo. Come sue restano le emozioni che ha regalato. E che non si cancelleranno. A livello di province ha vestito la maglia di Counties Manukau, Wellington e North Harbour, nel Super Rugby quelle di Blues, Chiefs e Hurricanes.
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Ovunque ha fatto sfracelli. In queste ore lo ricordano in ogni angolo del mondo, lo commemorano in tanti. Dal primo ministro neozelandese John Key (il Paese della lunga nuvola bianca è inevitabilmente in lutto) a Jonny Wilkinson, forse il sue erede il fatto di popolarità. Lomu ha prestato il suo nome a tutto: dai prodotti alimentari, ai videogiochi. Il suo nome, soprattutto, ha cambiato i connotati di uno sport.
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