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    IL RESTO? "MANK"! - CHI SCRISSE DAVVERO "QUARTO POTERE", CONSIDERATO IL FILM PIU' BELLO IN ASSOLUTO? – DOMANI SU NETFLIX LO STUPENDO FILM DI DAVID FINCHER SUL COMPLESSO RAPPORTO FRA DUE GENI NELLA HOLLYWOOD DEGLI ANNI '30: ORSON WELLES E LO SCENEGGIATORE HERMAN MANKIEWICZ  – AGLI OSCAR A MANK SAREBBE PIACIUTO RINGRAZIARE COSI': "SONO MOLTO LIETO DI ACCETTARE QUESTO PREMIO IN ASSENZA DEL SIGNOR WELLES, PERCHÉ LA SCENEGGIATURA È STATA SCRITTA IN ASSENZA DEL SIGNOR WELLES" – VIDEO


     
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    Paola Zanuttini per Il Venerdì – la Repubblica

     

    david fincher david fincher

    DAVID FINCHER non mette mano alle sceneggiature perché, dice, non è roba per lui. Ma ha girato Mank (dal 4 dicembre su Netflix), un film scritto da suo padre sul complesso rapporto fra Orson Welles e Herman Mankiewicz, ovvero tra regista e sceneggiatore di Quarto potere, la cui visione, da ragazzino, a scuola, è stata un’esperienza seminale nella sua formazione da cineasta: il papà gliene aveva parlato entusiasticamente così tante volte che lui temeva la delusione. Naturalmente, non ci fu.

     

    Dell’intreccio simbolico e sentimentale dell’operazione parleremo in seguito. Fincher senior è morto nel 2003. Non che Welles avesse abitualmente rapporti tanto facili con produttori e collaboratori (sempre su Netflix, il documentario They’ll Love Me When I’m Dead serve a farsi un’idea) ma, nella genesi, realizzazione e fortuna di quello che per decenni è stato considerato il film più bello in assoluto, stesura del copione e successive polemiche sull’attribuzione dei meriti, inizialmente negati a Mankiewicz addirittura in termini di credit, sono un capitolo importante, quanto dimenticato, della storia del cinema.

    orson welles e mankiewicz orson welles e mankiewicz

     

    La querelle meriterebbe almeno una citazione: nel paragrafo Dichiarazioni velenose pensate, ma non pronunciate, agli Academy Awards, dove, con nove nomination, il film vinse un solo Oscar, per la sceneggiatura, appunto.

     

    Alla cerimonia non c’erano né Welles né Mankiewicz, ma a quest’ultimo – come rivela il suo biografo Richard Meryman – sarebbe piaciuto ringraziare così: «Sono molto lieto di accettare questo premio in assenza del signor Welles, perché la sceneggiatura è stata scritta in assenza del signor Welles».

     

    MANK 7 MANK 7

    Dunque, siamo nel 1940, Herman Mankiewicz (d’ora in poi Mank), un irresistibile Gary Oldman sempre a suo agio nei ruoli da alcolista, è uno sceneggiatore di mezza età, fratello maggiore di Joseph, il regista, quello di Eva contro Eva, più disciplinato e inserito, mentre lui è tutto genio e sregolatezza, sbronze continue, perdite al gioco, e si è fatto terra bruciata intorno anche se ha lavorato con i Fratelli Marx e al Mago di Oz.

     

    Per dire: è lui che ha avuto l’idea di girare in bianco e nero la vita quotidiana di Dorothy in Kansas e di riprendere a colori il Paese di Oz. Drammaturgo fallito, detesta Hollywood, che gli paga i vizi, e litiga con tutti, ma in fondo è un loser perbene. Ha anche una gamba ingessata per un insensato incidente automobilistico (non guidava lui, comunque).

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    Assistito da una segretaria-dattilografa inglese e da una governante-infermiera tedesca, viene recluso in un ranch, arido e abbastanza distante da Hollywood, per scrivere la sceneggiatura di Quarto potere, titolo originale Citizen Kane, film ispirato e neanche tanto velatamente a William Randolph Hearst, potente e spregiudicato mogul dell’editoria.

    mank mank

     

    Gliel’ha commissionata un giovanissimo (25 anni) Welles, con cui Mank ha già lavorato alla radio. Il regista è al suo primo lungometraggio, e la Rko, sedotta dalla sua fama di fenomeno teatrale e radiofonico, gli ha concesso – privilegio rarissimo – totale libertà di manovra.

     

    Interrompono la solitudine le frequenti visite di controllo di John Houseman, il socio di Welles, che invece si fa vivo più di rado, al telefono o con qualche entrata a effetto.

     

    Se non fosse per i flashback, il film sarebbe un medical drama, con Mank quasi sempre sempre a letto, alle prese con l’immobilità, la convalescenza, le minestrine, la disintossicazione dall’alcol, le sue arguzie. E la scrittura, che è anche una terapia perché con Welles – sarà un osso duro, ma anche un genio – è finalmente libero creativamente. Quella che sembrava un’ulteriore routine da scribacchino per alzare qualche dollaro diventa una sfida: allo star system e a se stesso. Ma poi ci sono i flashback. Appunto.

     

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    Un’immersione nella Hollywood anni Trenta con Louis B. Mayer (MGM) che proclama la necessità di colpire lo spettatore al cuore ma anche ai coglioni, e se li tocca nel caso non si fosse capito; l’ignobile commistione politica-spettacolo, con i cinegiornali pieni di fake news in favore del candidato governatore della California repubblicano; le mortifere feste nel bruttissimo castello di Hearst, che Marion Davies, attrice e sua amante di 34 anni più giovane, tenta di umanizzare, mentre Mank, ospite indesiderato, vomita senza ritegno davanti agli ospiti;

     

    louis b mayer william randolph hearst louis b mayer william randolph hearst

    il taylorismo produttivo delle major che ogni cosa predispongono e controllano, sotto il segno del dollaro. Insomma l’età d’oro del cinema americano con i suoi Thalberg e Selznick, e le dive ossigenate: tutto meno splendente dell’iconografia ufficiale.

     

    Sarà per via del bianco e nero, un bianco e nero strepitoso e crudele che dà la sensazione, anche sconcertante, di rientrare, ottant’anni dopo, nel film di Welles. Non a caso Fincher aveva detto ai suoi collaboratori che Mank doveva assomigliare a una pellicola dimenticata nello scaffale accanto a quello di Citizen Kane.

     

    Quanti flashback ci sono nel suo film?

    «Perché me lo chiede?»

    Per sapere se è lo stesso numero di Citzen Kane: cinque più il cinegiornale d’apertura. I due film hanno la stessa struttura.

    «Non le saprei dire quanti ce ne sono nel mio. E più che di struttura parlerei di stile: bisognerebbe ricordare che una delle grandi invenzioni di Citizen Kane è quella di far entrare lo spettatore nel flashback a partire dalle facce dei personaggi che raccontano il loro ricordo, la loro versione dei fatti.

     

    Quindi, di volta in volta, con l’angolazione soggettiva di quel narratore: un gran bel modo di aprire un capitolo. Ma noi non avevamo i ricordi di tante persone, avevamo solo quelli di Mank. E, oltretutto, erano una prospettiva su come poi sarebbero andate le cose».

    herman mankiewicz gary oldman herman mankiewicz gary oldman

     

    A proposito di memorie: visto che Welles è morto ormai da 35 anni, anche il suo ricordo è prossimo all’estinzione?

    «Resiste, limitatamente. Forse a chi decide di guardare il mio film farebbe comodo vedere prima Citizen Kane, se non sa proprio cosa sia: non vorrei prescrivere i compiti a casa, ma io, d’altra parte, non potevo mettere le note esplicative».

     

    Da Seven a Fight Club, da Panic Room a The Social Network fino a Mindhunter lei ha sempre lavorato molto sull’ossessione. Citizen Kane è la sua ossessione?

    «È un film molto importante per me, una pietra di paragone per capire cos’è veramente il cinema. E cos’era la disciplina per un cineasta, e anche lo scambio di un regista con i suoi collaboratori».

     

    Gary Oldman - Mank Gary Oldman - Mank

    E ora veniamo all’intreccio simbolico e sentimentale di cui sopra. Nei primi anni Novanta, il giornalista Jack Fincher andò in pensione, progettando di dedicarsi alla scrittura per il cinema. Suo figlio David, allora trentenne e agli esordi come regista, gli suggerì di indagare sulla vicenda Welles-Mankiewicz. Il padre seguì il consiglio, anche perché il tema era caro a tutti e due, e si mise al lavoro su Mank. Nel 1997 la sceneggiatura era ultimata e soddisfacente, ma nessuno era disposto a finanziare un film in bianco e nero, e su questo dettaglio i Fincher erano irriducibili.

     

    Nel 2003 Jack muore. Trent’anni dopo i primi progetti su Mank, la sua scrittura è diventata un film. È stato più complicato del solito lavorare su un copione firmato da uno sceneggiatore che era suo padre? «Un po’ sì, anche se cerco sempre di rispettare il lavoro dello sceneggiatore e qui ho fatto lo stesso. Certo, il copione mi è girato intorno per tanti anni, stava sullo scaffale della libreria, era impossibile perderlo di vista, ma non credo di averlo trattato con maggior deferenza perché l’aveva scritto mio padre».

    orson welles in quarto potere orson welles in quarto potere

     

    Com’era il rapporto con suo padre?

    «Molto normale. C’era il rispetto, ma non credo mi abbia impedito di segnalare eventuali errori nel suo lavoro. Ho provato a trattarlo con la stessa indifferenza che metto in campo con gli altri collaboratori».

     

    Però, quando Mank è diventato qualcosa più di un progetto posteggiato su uno scaffale della libreria, non ha potuto discuterne con suo padre, né chiedergli chiarimenti o modifiche.

    «È vero. Ma di questo progetto abbiamo parlato all’infinito, sviluppandolo per una decina d’anni. Conoscevo le sue intenzioni, erano abbastanza chiare. E poi, lo ripeto, io ho sempre cercato di fare in modo che gli sceneggiatori fossero soddisfatti, addirittura felici del modo in cui tratto il loro lavoro. Li ascolto e voglio che si sentano ascoltati».

    ORSON WELLES ORSON WELLES

     

    Dall’oltretomba le sarà grato Mank, di cui si è persa quasi del tutto la memoria. Un paio d’anni dopo la fondamentale visione di Citizen Kane, lei ha letto il controverso saggio di Pauline Kael Raising Kane, nel quale la famosa critica del New Yorker sosteneva che Welles non meritava di firmare la sceneggiatura, perché il lavoro era tutto di Mank. Lei da che parte sta?

    «Io non mi schiero: Mank era un genio e ha scritto un capolavoro di sceneggiatura. Welles era un genio e si è fatto aiutare da altri geni, ha arruolato le persone migliori, il cast migliore. Nonostante tutto quello che è stato scritto sui due fronti, non c’è modo di risalire esattamente a chi ha fatto cosa. So che molte delle attribuzioni di Kael a Mank derivano da una sua discussione con lui, ma non mi interessa più di tanto».

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    D’accordo, il contratto con la Rko prevedeva che Welles firmasse la sceneggiatura, ma perché non voleva accreditare anche Mank?

    «Welles aveva una sua idea piuttosto accentratrice su come si realizza un film e doveva essere sempre lui, autore totale, ad avere l’ultima parola su tutto. Il suo progetto di trasferire al cinema il sistema del suo Mercury Theatre assomiglia un po’ all’American Zoetrope di Coppola.

     

    Era anche convinto, credo genuinamente, che isolamento e anonimato giovassero a Mank, liberandolo da tutte le pressioni che si portava dietro e consentendogli una maggiore introspezione. Quando Mank, che aveva capito di aver scritto un capolavoro, reclamò il suo “nome sulla lapide”, Welles gli ricordò che aveva firmato un contratto in cui non era previsto. Ma, dopo l’uscita del film, il lobbying degli sceneggiatori lo convinse a recedere e firmarono insieme. In questo ordine: Herman J. Mankiewicz e, la riga sotto, Orson Welles».

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    Era veramente d’oro l’età d’oro di Hollywood che appare nei flashback di Mank?

    «I grandi interventi nei contenuti di qualità sembrano arrivare sempre dopo le rivoluzioni tecnologiche, e non solo tecnologiche. Negli anni Trenta, un decennio dopo l’introduzione del sonoro la gente del cinema ha imparato a padroneggiare queste nuove tecniche e cambia radicalmente il modo di fare i film. Il collasso degli Studios alla fine degli anni Sessanta dà il via alla New Hollywood dei Settanta.

     

    E ancora: nel Dopoguerra le major cominciarono ad abbandonare la convinzione di sapere esattamente cosa vuole il pubblico, i registi trovano altre ispirazioni dalla realtà e si comincia a giocare con la cinepresa, nelle location, fuori dagli studi. Molto spesso quello che succede nel reale influenza strutturalmente la fiction.

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    Oggi il coronavirus che ci impedisce di andare al cinema porterà chissà quali cambiamenti a lungo termine sul modo di pensare e vedere i film. E temo che i film che pagheranno di più questa transizione saranno quelli a budget medio-basso. Riflettono più da vicino la realtà ma hanno anche le maggiori difficoltà a trovare finanziamenti e circolazione».

     

    I produttori erano più potenti allora o oggi?

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    «Oggi hanno più potere i distributori, mentre un tempo le grandi produzioni controllavano tutto, dai cachet degli artisti, che mettevano sotto contratto per anni, ai cinema di loro proprietà dove proiettare i film che avevano prodotto, fino all’informazione e perfino il gossip».

     

    Non sempre controllabile, però. In Mank qualcuno smitizza “Rosebud”, l’ultima parola pronunciata in punto di morte dal Cittadino Kane, insinuando che non è la marca della slitta strappatagli di mano quando, bimbetto, viene consegnato al tutore che lo avvia al suo destino di capitalista spietato. Sarebbe invece il nomignolo – bocciolo di rosa – che Hearst, modello ispiratore di Kane, avrebbe dato al sesso della sua giovane amante. Vero o falso?

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    «Falso, ma era un diceria dell’epoca. Nel mio film solo il trenta per cento è reale, tutto il resto è inventato»

     

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