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Fulvio Fiano per il “Corriere della Sera”
video inchiesta propaggine ndrangheta
Le immagini sono nitide, visivamente e per quello che rappresentano: due boss della ‘ndrangheta che in strada a Roma maledicono i magistrati loro avversari: «Pignatone, Prestipino e Cortese (l’ex capo della Squadra mobile, ndr), gli stessi che ci combattevano dentro ai paesi nostri...».
In un altro passaggio un uomo nel cortile di una auto officina di Montecompatri ne schiaffeggia un altro e, pistola alla mano, prima spara in aria poi lo sfida a farsi ammazzare con in un film di gangster o, per restare alla nostra delinquenza, come quelle serie tv che raccontano le vite dei malavitosi.
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I documenti video allegati all’inchiesta «Propaggine» che lo scorso maggio ha smantellato con 43 arresti (e un’altra trentina in Calabria) il primo Locale di ‘ndrangheta capitolina sono stati mostrati ieri per la prima volta dal TgR Lazio. E se pure il contenuto delle intercettazioni era in buona parte noto, l’effetto che rimandano è di forte impatto.
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I due boss che dialogano nel traffico pensando così di evitare le intercettazioni ambientali sono Antonio Carzo e Vincenzo Alvaro, rappresentanti di famiglie originarie di Cosoleto, in provincia di Reggio Calabria. Uno dei bracci più potenti della criminalità calabrese, che a Roma aveva insediato una propria succursale, ma autonoma e a pari livello con le ‘ndrine della casa madre. Uno status rivendicato nel dialogo captato dalla Direzione investigativa antimafia, che ha condotto le indagini coordinata in Procura dalla Dda dal procuratore aggiunto Ilaria Calò e il pm Giovanni Musarò: «Noi siamo qua, guardate quanto siamo belli qua - si ascolta in un’altra conversazione intercettata —. Noi abbiamo una propaggine di là sotto. Noi ci facciamo i c...i nostri. Come gli Spada si fanno i c...i loro, o no?».
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Anche il riferimento a una delle famiglie criminali romane per anni egemone ad Ostia e non solo è significativo per soppesare il potere sul proprio territorio di competenza. Il capoclan, che nelle intercettazioni viene definito come «il Papa» da uno degli affiliati, descrive la struttura del gruppo criminale: «Siamo assai pure qua... volta e gira siamo qualche 100 di noi altri anche in questa zona del Lazio».
Nella lotta tra Stato e antistato dalla Calabria sono venuti a Roma anche i temuti antagonisti, l’ex procuratore capo Giuseppe Pignatone, l’ex capo della Dda e per un periodo suo successore, Michele Prestipino, e il poliziotto che li affiancava anche nelle inchieste reggine: «Dobbiamo stare più quieti... — dicono i boss — sono tutti quelli che combattevano dentro i paesi nostri... Cosoleto, Sinopoli. Tutta la famiglia nostra...maledetti».
michele prestipino e giuseppe pignatone (1)
Droga, armi, estorsioni, infiltrazioni nell’economia, dal settore ittico alla panificazione, dalla pasticceria al ritiro di pelli e olii esausti riciclando montagne di denaro sono le attività contestate al Locale, all’interno del quale è significativa in particolare la figura di Alvaro, già coinvolto nel 2009 nell’inchiesta sul controllo del Cafè De Paris di via Veneto. Leali e rispettosi i rapporti con le altre organizzazioni criminali romane.
Costante il confronto con la «casa madre», con l’accortezza però di limitare al minimo i contatti di persona, sfruttando magari occasioni come matrimoni o funerali «durante i quali — si legge negli atti di indagine — si sono svolti incontri fugaci ma risolutivi; nei casi di estrema urgenza, poi, gli incontri sono stati concordati mediante l’intermediazione di ‘messaggeri».
Uno stile votato all’inabissarsi, racchiuso in un altra frase di Alvaro ascoltata dagli investigatori durante una cena in un ristorante sulla Tuscolana, poi sequestrato: «Sulla Ferrari non salgo, io sono terra terra...».
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