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    ELLIOTT ERWITT, MORTO POCHI GIORNI FA, ERA UN FOTOGRAFO DA CANI (MA È TUTT'ALTRO CHE UN INSULTO) - MARCO BELPOLITI: "CHE SIA STATO UN FOTOGRAFO UNICO LO CERTIFICA ANCHE LO SCRITTORE P. G. WODEHOUSE, CHE NEL 1974 HA PUBBLICATO CON LUI UN LIBRO INTITOLATO "FIGLIO DI CAGNA" DOVE SCRIVE: 'NELLA SUA GALLERIA NON C’È UN MODELLO CHE NON TOCCHI IL CUORE'. INTENDEVA OVVIAMENTE I CANI. MA PERCHÉ ELLIOTT SI È DEDICATO COSÌ TANTO A QUESTO SOGGETTO? LA RISPOSTA È STATA: 'PERCHÉ COSÌ TANTI UMANI?'"


     
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    Marco Belpoliti per www.doppiozero.com

     

    elliott erwitt due cani con padrone elliott erwitt due cani con padrone

    “Se fossi un cane, mi piacerebbe essere fotografato da Elliott Erwitt”. Così ha scritto Simon Garfield in un suo libro "Il miglior amico del cane" (Ponte alle Grazie). Ha perfettamente ragione. Da quando è nata la fotografia, nessuno ha mai scattato foto più belle e sorprendenti a questo animale, così prossimo a noi umani, come il fotografo russo-americano.

     

    Nato in Francia nel 1928, e scomparso l’altro giorno, Erwitt è figlio di una coppia di ebrei russi aspiranti artisti che nei primi decenni del Novecento hanno girovagato per il sud dell’Europa vivendo anche in Italia.

     

    Il nome del grande fotografo è infatti Elio, poi trasformato, una volta raggiunta l’America per sfuggire ai nazisti, in Elliott, e una leggenda narra che i genitori volessero evitare il gioco di parole: “Hello Elio”. Che Erwitt sia stato un fotografo unico lo certifica anche lo scrittore umoristico P. G. Wodehouse, che nel 1974 ha pubblicato con lui un libro intitolato Figlio di cagna dove scrive: “Nella sua galleria non c’è un modello che non tocchi il cuore”. Intendeva ovviamente i cani. Ma perché Elliott si è dedicato così tanto a questo soggetto? Garfield glielo ha chiesto e la risposta è stata: “Perché così tanti umani?”.

     

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    Poi gli ha spiegato che i musi dei cani non invecchiano alla maniera dei volti umani, non si riempiono di rughe, non sembrano troppo derelitti e non hanno la tentazione della chirurgia plastica, al massimo si ingrigiscono intorno alle mascelle. Garfield spiega che la propensione per il miglior amico dell’uomo è nata in Elliott durante l’adolescenza negli anni Quaranta del secolo scorso, quando adottò un cane ammalato di cimurro che col trascorrere del tempo divenne sempre più arruffato e insieme sempre più intelligente e sensibile, qualcosa che probabilmente negli esseri umani non avviene in modo simile. Invecchiando spesso noi perdiamo lucidità e forse anche sensibilità.

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    Insomma i cani sono per Erwitt il soggetto migliore che ci sia, cui riserva un’attenzione particolare e loro sembrano ricambiarlo con le loro pose e posture, tanto da apparire molto umani, per quanto ci sia in ogni sua foto con questo soggetto (soggetto e non oggetto) sempre qualcosa d’ironico, qualcosa che rivela aspetti di noi umani passando per il mondo canino.

     

    Insomma, il suo è uno sguardo rovesciato, a volte persino due volte rovesciato. Si osservi questa splendida foto con questo formidabile taglio: inquadra due paia di gambe e un piccolo cane. Le gambe sono alte ed eleganti: l’eleganza delle zampe dell’alano (credo sia un alano) è paragonata a quella degli stivali della sua proprietaria: una naturale e l’altra artificiale.

     

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    Loro due sono alti e possenti: è la razza padrona. Il piccolo cane guarda invece verso l’obiettivo: inquadrato interamente indossa un cappello; s’intravede anche la mantellina che lo ricopre. Lui è probabilmente – se così si può dire – il più umano dei tre, ammesso e non concesso che la sua umanità emerga da questa sua condizione d’inferiorità fisica rispetto ai due padroni.

     

    Quel cappellino come la mantellina indicano non tanto una cura, piuttosto l’umanizzazione del cane, che appare più umano non in virtù del travestimento, ma per via del confronto con i suoi due padroni. Insomma una serie di significati e rinvii che emergono da questo “semplice” scatto: dicono tanto con poco. Quel poco poi è il grande talento di Elliott Erwitt.

     

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    Possiede quello che si chiama il “colpo d’occhio”, cioè la velocità di cogliere l’immagine quando essa appare: appare e poi scompare. Erwitt ha intitolato uno dei suoi libri (molti dei quali bellissimi pubblicati in Italia da Contrasto) Snap. Si tratta di una parola che in inglese significa colpo secco, morso, rottura improvvisa, e anche scatto fotografico.

     

    Elliott non è solo però il fotografo della velocità, dell’immagine colta al volo, ma anche della vivacità, dell’energia e soprattutto dell’allegria. E se vogliamo è anche il fotografo della “bazzecola”, parola che usiamo nella nostra lingua per indicare una cosa di poco conto, un’inezia, una minuzia, un nonnulla. La qualità principale della fotografia di Erwitt è quella di cogliere proprio le cose di poco conto e dare loro un significato specifico, quasi sempre legato a qualcosa di umoristico.

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    Ci fa sorridere, e a volte persino ridere, che è il solo modo per farci pensare in modo leggero alle cose pesanti. Sono istantanee e somigliano a quelle immagini che i nostri occhi vedono ogni giorno per caso e che non riusciamo mai a fissare in qualcosa di durevole, e tuttavia ci colgono di sorpresa e ci colpiscono. Oggi con gli smartphone noi tutti siamo diventati più rapidi nell’afferrare al volo le minuzie, per quanto mai veloci come lui.

     

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    Elliott Erwitt ha una prerogativa che ne fa un grande fotografo rispetto ai milioni di dilettanti cui capita di scattare almeno un paio di foto splendide nel corso della vita: sembra possedere il potere sciamanico di capire che sta per succedere qualcosa di significativo, qualcosa giusto da fotografare. Guardando le sue foto sembra che lui stesso abbia preparato lo scatto ricorrendo a qualche piccolo accorgimento, minimo eppure decisivo, tanto da non essere colto di sorpresa quando “qualcosa” accade. Non c’è niente di meccanico in questo. Si tratta solo di una magia, quella che lo ha reso un grande fotografo.

     

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    Accade così perché non è mai distratto? Probabile. Ma c’è anche un’altra cosa decisiva, che ha detto lui stesso in un’intervista: “io sono passivo nella mia attività”. Passivo? Sì, sa accogliere quello che accade. Viene il sospetto che in questo aspetto, come nel suo umorismo, ci sia qualcosa del Witz ebraico, parola che in yiddish indica la barzelletta, che per funzionare deve essere veloce come un lampo e durevole come un pensiero, un pensiero che non si finisce di pensare anche dopo che è stata raccontata.

     

    Infine c’è un ultimo aspetto, anche questo probabilmente russo ed ebraico: Elliott Erwitt è un narratore, narratore di storie brevi, di novelle, che poi sono le cose nuove che il suo occhio coglie e ci comunica in modo veloce e aereo.  

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