Lorenzo Santucci per www.formiche.net
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“Chi controlla i meme, controlla l’universo”. Lo ha twittato Elon Musk e la domanda, visti i tempi, sorge spontanea: quale universo? Il nostro o quello futuro del Web3, cui lo stesso Musk sta contribuendo? Forse, però, più della risposta è interessare sapere che l’affermazione del patron di Tesla è stata lasciata sotto una considerazione di Marc Andreessen.
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“Tutta la formazione culturale nel nostro tempo è ora lo sviluppo e la propagazione di meme che si fanno strada attraverso una catena di approvvigionamento nel cyberspazio. La maggior parte muore; alcuni prosperano. I meme che ce la fanno codificano significati profondi. Questo è un processo serio come non è mai esistito”, aveva twittato il venture capitalist. E tra quelli che ce la vogliono fare – o che ce l’hanno già fatta – c’è anche Dogecoin, valuta digitale cara ad Elon Musk.
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Cosa c’entra un meme con le crypto e, soprattutto, con la diffusione culturale? Da neanche un anno, Dogecoin rientra nella classifica top five delle criptovalute per capitalizzazione, che ad aprile 2021 ammontava a 50 miliardi di dollari. Una cifra che, con molta probabilità, nessuno si sarebbe mai aspettato quando nel dicembre del 2013 venne creata per scherzo.
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È ispirata a un meme famosissimo di Internet che raffigura un cane Shiba – da cui un’altra criptomoneta, la Shiba Inu coin – non propriamente a suo agio con l’ortografia, spiegando così il nome Dog(e)coin. Insomma, l’intento voleva suscitare giusto qualche risata.
Tuttavia, dopo un mese aveva raggiunto una capitalizzazione di mercato pari a 60 milioni di dollari, un anno e mezzo dopo era arrivata a 370 milioni, fino a toccare il miliardo a inizio 2018. Le risate, a quanto pare, erano diventate contagiose.
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A dare una spinta a Dogecoin ci ha pensato proprio il Ceo di Tesla. Il suo primo approccio è stato poco più di un anno fa, quando aveva ritwittato una falsa copertina della rivista Dogue. Che da lì potesse nascere un legame così forte era difficile da immaginare. Eppure, giorno dopo giorno, gli indizi crescevano.
Prima la condivisione di un’immagine del Re Leone, con lo Shiba al posto di Simba. Poi si era chiesto “Chi ha fatto uscire il Doge”, parafrasando la canzone anni ’90 Who let the dogs out?.
Ma, soprattutto, ad aprile aveva scritto “Doge Barking at the Moon”, cane che abbaia alla Luna. Ormai parlare della Luna senza citare Elon Musk è pressoché impossibile e infatti, poco dopo, riecco un altro tweet indicativo: “Il prossimo anno, SpaceX lancerà il satellite Doge-1 sulla Luna”. In sostanza, Dogecoin finanzierebbe l’intera spedizione.
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A sessantacinque anni dal lancio dello Sputnik 2 sovietico, su cui la cagnolina (di razza) Laika diventò il primo animale a orbitare intorno alla Terra, potrebbe esserci un altro cane – questa volta digitale – a prendere la via dello spazio.
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L’interesse di Musk ha creato un effetto domino: dai rapper statunitensi Snoop Dogg e Soulja Boy, all’azienda di alimenti confezionati Conagra Brands fino a Snickers. Interazioni che hanno portato la valuta digitale nata per scherzo così in alto da avere davanti solo a Bitcoin, Ether e Binance coin.
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Ovviamente, la volatilità è il pericolo più grande per tutte le criptovalute. Non sarebbe dunque una sorpresa veder crollare improvvisamente il suo valore, cresciuto del 13% dopo l’apertura di Musk all’acquisto in Doge di alcuni prodotti.
Questa riflessione ci rimanda alla considerazione iniziale di Andreessen sull’impatto dei meme nella nostra società, su quanto e come riescono a influenzarla. Ma perché è importante se uno come lui parla dei meme come diffusore culturale?
Informatico e imprenditore, il suo arrivo in California ha rivoluzionato il settore Tech. Quando il browser Mosaic debuttò sul mercato, Andreessen fu nominato vicepresidente del dipartimento tecnologico, di cui era cofondatore. Presto cambiò nome in quello che divenne il marchio di fabbrica di Andreessen: Netscape Navigator.
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Venne acquistato per 4,2 miliardi di dollari da American on Line (AOL), all’epoca gigante di internet nel frattempo decaduto e comprato da Verizon. Nel 2009, con il gruzzolo ottenuto dalla vendita, ha fondato insieme a Ben Horowitz la società di venture capital che porta i loro nomi, la Andressen Horowitz nota anche come a16z.
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Gli investimenti dell’azienda variano dal mobile al gaming, dai social all’e-commerce, con una particolare attenzione per le start-up emergenti e con grande prospettiva di crescita.
Non è un caso perciò che tra le sue operazioni rientrano società come Skype – venduta a Microsoft nel 2011 per 8,5 miliardi di dollari –, Facebook, Twitter, Groupon e Zynga. Lo stesso ha fatto con Airbnb, BuzzFeed, Foursquare, Stripe fino ad arrivare alle case automobilistiche a guida autonoma.
Ha investito anche su Coinbase (principale exchange di criptovalute) e, come ha raccontato nei giorni scorsi il Financial Times, sarebbe in cerca di 4,5 miliardi di dollari per continuare in questa direzione. In sintesi: i più grandi finanziamenti della Silicon Valley passano da questa società.
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Se, dunque, due degli imprenditori più importanti parlano (chi per un verso, chi per un altro) dei meme come lo strumento principale per veicolare messaggi, la questione si fa calda.
Citando l’Accademia della Crusca, “si può dire che un meme è un elemento culturale o di informazione che, per qualche sua caratteristica, diviene chiaramente riconoscibile e riproducibile, e si diffonde in maniera velocissima, potremmo dire virale, per l’appunto, anche grazie alla possibilità date dai nuovi canali di comunicazione”.
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A parlare di diffusione culturale dei memes fu nel 1976 il padre della memetica, il biologo Richard Dawkins nel suo libro “Il gene egoista”. Secondo lui, per avere successo un meme deve essere riprodotto quanto più vicino all’originale – dal greco mimena, ovvero imitazione – deve diffondersi velocemente e, soprattutto, deve avere una lunga vita. Ecco spiegato come le informazioni culturali iniziano a circolare.
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“Sicuramente c’è un’ambiguità su quello che significa “meme”: se in senso più stretto le immagini buffe che circolano in rete, o in senso più ampio – com’era nella metafora proposta da Dawkins – dei segni o dei discorsi che si diffondono secondo una logica evoluzionista”, spiega a Formiche.net il saggista Raffaele Alberto Ventura.
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“In questa seconda accezione è vero che i meme governano l’universo, perlomeno quello sociale, e per capirlo più che Dawkins consiglierei di leggere Dan Sperber, teorico di una epidemologia dell’immaginario.
Ovviamente questa ambiguità è strumentale a una certa narrazione che tenta di valorizzare la cultura dei meme (in senso stretto) sulla base della generalità della dimensione memetica (in senso ampio)”.
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L’exploit di questa narrazione lo abbiamo avuto “nel 2015-2016, quando in occasione della vittoria di Donald Trump si è speso molto inchiostro digitale per parlare di una ‘magia dei meme’ che aveva in Pepe the frog il suo significante maestro”, continua Ventura.
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La rana a cui fa riferimento il saggista è quella con sembianze umanoidi ormai famosa nel web. La sua origine è da ritrovare nel cartone Boy’s Club, ma a garantirle il successo è stato anche il significato che l’Alt-right americana ha deciso di affibbiarle (senza consenso dell’ideatore, Matt Furie).
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Così, è facile imbattersi in Pepe the frog vicino a commenti razzisti o nazisti o per rappresentare Donald Trump, tanto che l’Anti-Defamation League, ideata oltre cento anni fa per combattere la diffamazione contro gli ebrei, l’ha inserita ella sua lista nera. Dall’altra parte del Pacifico, invece, i cinesi la legano alle proteste di Hong Kong.
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Dietro un meme, pertanto, si può nascondere molto più di una semplice risata. Una storia politica, un rimando indiretto a un’ideologia: tutte interazioni che possono condizionare la società.
Addirittura, come abbiamo visto, da uno scherzoso ne è nata una criptovaluta capace di incuriosire Elon Musk a tal punto da pensare di spedire un satellite nello spazio a suo nome.
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Il Ceo di Tesla ha fatto notare come, da quando la moneta digitale è stata presa in considerazione dagli investitori e dalle piattaforme di exchange, l’interesse nei suoi confronti è cresciuto a dismisura. Ora, verrebbe da chiedersi se riuscirà un cane giapponese a imporsi e a codificare un nuovo messaggio nella nostra società. Mal che vada, c’è il Metaverso.
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