Stefano Boldrini per il Messaggero
enzo bearzot
La cultura classica, il sottofondo della musica jazz, la visione della pittura fiamminga e naturalmente la passione per il calcio: in queste vene scorre la storia della famiglia Bearzot, dal patriarca Enzo, l'uomo che guidò l'Italia alla conquista del mondiale 1982, ai nipoti, passando per il figlio Glauco («papà amava il greco e scelse questo nome che richiamava la divinità») e la figlia Cinzia, classe 1955, ordinaria di Storia greca all'Università Cattolica di Milano, autrice di diversi testi.
Cinzia aveva 27 anni quando gli azzurri trionfarono in Spagna, segnando in profondità la vita di una nazione che, con quel successo, voltò pagina dopo un decennio oscuro, segnato dal terrorismo e da acute tensioni sociali. L'Italia entrò nel suo secondo boom economico. L'editoria, trascinata dai giornali sportivi, visse anni d'oro.
Il successo nella finale contro la Germania, l'11 luglio, fu l'happy end, ma la vigilia del torneo e la fase eliminatoria, con la qualificazione ottenuta dopo i tre pareggi con Polonia, Perù e Camerun grazie al maggior numero di gol segnati rispetto alla squadra africana, furono tormentati: che ricordo ha di quei giorni?
«Furono settimane dolorose. Papà fu trattato malissimo, con punte di cattiveria, in alcuni momenti persino deriso. Noi aspettavamo la sua telefonata tutte le sere. Si sforzava di apparire tranquillo.
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La sua forza fu la convinzione di essere nel giusto: gli rimproveravano di aver puntato su Paolo Rossi, reduce da due anni di inattività per il calcio scommesse. Papà aveva sempre creduto nell'innocenza di Paolo e decise di aspettare il suo ritorno in forma. Quella scelta gli scatenò una parte della stampa contro, ma lui andò dritto per la sua strada. Papà era così: per un'idea era disposto a sfidare il mondo. C'è un altro aspetto da considerare: era indifferente alla popolarità».
Ad un certo punto scattò il silenzio stampa, il primo della storia.
«Furono i giocatori a prendere quella decisione. La linea rossa era stata con articoli offensivi nei confronti di alcuni calciatori. Papà lasciò piena libertà alla squadra di scegliere come comportarsi, ma sicuramente approvò il silenzio stampa».
bearzot pertini
L'Italia vinse con l'Argentina e la storia cambiò, fino al trionfo nella finale con la Germania.
«Fu un'epopea. Tra le definizioni migliori di quell'impresa, trovo sia quella di un viaggio degli eroi. Una grande avventura, che tenne con il fiato sospeso una nazione intera, incredula di quanto stesse accadendo. Fu un magnifico crescendo, che sarebbe entrato nell'immaginario collettivo».
In questa seconda fase, nelle telefonate a casa, suo padre si lasciò sfuggire qualche accenno di ottimismo?
«Papà era convinto che con i gol di Paolo Rossi l'Italia si sarebbe sbloccata. La vittoria con l'Argentina diede fiducia all'intero ambiente».
Il famoso bacio sulla guancia di Dino Zoff a suo padre è una delle immagini del trionfo.
«Un bacio meraviglioso. Papà aveva un rapporto speciale con Zoff: era il più anziano della squadra, era il capitano ed era anche friulano. Quando Zoff al ritorno dagli europei del 2000 si dimise dopo aver ricevuto critiche pesanti da parte del mondo della politica, disse non è possibile trattare Dino in questo modo. Non è un uomo: è un monumento vivente. Quella foto è bella perché ridono. Non capitava spesso».
Al netto del silenzio stampa e degli episodi di quel mondiale, quali sono stati i giornalisti con i quali suo padre ebbe un buon rapporto.
«Con Gianni Brera ci furono stima e rispetto. Il legame più stretto fu con Giovanni Arpino, poi Gigi Garanzini e Alberto Cerruti».
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La famosa partita a scopone sull'aereo che riportò in Italia la nazionale ci ha regalato un'altra foto memorabile: suo padre, Dino Zoff, Franco Causio e il presidente Sandro Pertini con le carte in mano.
«Papà stimava Sandro Pertini. Erano uomini con la schiena dritta, capaci di andare fino in fondo per un'idea».
Quale fu l'accoglienza della famiglia quando su padre tornò a casa, a Milano?
«La sera del successo nella finale con la Germania scendemmo in piazza per festeggiare. Papà portò la famiglia a pranzo. Scelse un modo sobrio per celebrare quella straordinaria impresa. Era il suo stile».
Nel 1986, dopo la sconfitta con la Francia, negli ottavi del mondiale messicano, Enzo Bearzot lasciò la nazionale.
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«Era consapevole già prima dell'inizio del torneo che se fosse finita male, la sua esperienza con l'Italia si sarebbe conclusa. La prese bene. Ho guidato la nazionale undici anni, anche troppi. Ricordo queste parole».
Dopo Messico 1986, suo padre uscì dalla scena. Fu quasi oscurato dai vertici del calcio di allora.
«In realtà papà aveva deciso di ritirarsi. Aveva vissuto sempre con disagio la lontananza dalla famiglia. Si sentiva in colpa e cercò di recuperare con i nipoti. Ricevette offerte da squadre di club, ma lui non voleva un impegno quotidiano.
Ci furono contatti anche con gli Stati Uniti e paesi arabi, ma lui disse che cosa vado a fare da quelle parti?. Non dava importanza al denaro. Non volle monetizzare il successo del mondiale. E non era adatto a incarichi diplomatici: non era incline ai compromessi. Io ho sempre pensato che abbia lasciato troppo presto».
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La passione per la cultura classica di Enzo Bearzot ha influenzato tutta la famiglia.
«Aveva frequentato il liceo classico. Aveva studiato dai Salesiani. Il suo poeta preferito era Orazio, ma leggeva anche i contemporanei. Voleva fare il medico, ma fu conquistato dal calcio».
Come voleva essere ricordato suo padre?
«Come una brava persona».
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