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    L’UOMO CHE CI HA CAMBIATO LA VITA (INFORMATICA) - PARLA FEDERICO FAGGIN, IL “PAPÀ” DEL MICROCHIP E DEL TOUCH-SCREEN: ''JOBS UN TIRCHIO, GATES A 20 ANNI ERA MOLTO SPIGLIATO MA SOSPETTOSO POI HA ASSUNTO UNA CERTA ARIA DI SUPERIORITÀ SNOB" - LA FUGA DEI CERVELLI? BEN VENGA''


     
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    FAGGIN FAGGIN

    Alessandro Dell’Orto per “Libero Quotidiano”

     

    Che stiate smanettando al pc, whatsappando sull' i-Phone o touchscreenando su un tablet, dovreste ringraziare lui. Perché senza le sue intuizioni la tecnologia non sarebbe arrivata a questo punto in così poco tempo e ora non avremmo tanta facilità a comunicare, giocare, lavorare.

     

    Già, a cambiarci la vita informatica - e non solo - è stato Federico Faggin, 75 anni, vicentino emigrato negli Usa, inventore del microchip (nel '71) e premiato direttamente da Obama nel 2010 con la Medaglia Nazionale per la Tecnologia e l' Innovazione. Scienza e tecnica, ma non solo. Faggin, che ha brevettato anche il touchpad ('94) e il touchscreen, ora si occupa di coscienza.
     

    Un' intervista su Skype dagli Usa, parlarsi e vedersi in diretta dall' altra parte del mondo: Federico Faggin, senza di lei forse non sarebbe mai stato possibile.
    «Si riferisce al microchip? La ringrazio, ma penso solo di aver accelerato i tempi. Prima o poi qualcuno l' avrebbe inventato, era nell' aria».
     

    MICROCHIP MICROCHIP

    A proposito, togliamoci subito il dubbio. Cosa è un microprocessore? Proviamo a spiegarlo in parole semplici.
    «Non è altro che un computer ridotto in un chip di silicio con un volume inferiore a un centimetro cubo. Quando l' ho messo a punto, nel 1971, è stata una svolta. Pensi che l' UNIVAC I (Universal Automatic Computer I), il primo computer commercializzato nella storia nel 1951, occupava 100 metri quadrati, più o meno come un appartamento».

    Urca. Torniamo a lei, cervello italiano emigrato negli Usa. Come mai se ne è andato definitivamente?
    «I miei figli sono nati e cresciuti qui in California. E poi amo fare cose nuove e alla Silicon Valley è tutto più facile, ci sono più risorse economiche, se un progetto è valido te lo finanziano: pensi che solo nel 2015 sono stati investiti 30 miliardi di dollari. In Italia purtroppo i soldi per fare queste cose non ci sono».

    Già, come ci vede da laggiù?
    «Mi preoccupa che ci siano tanti giovani disoccupati. Non utilizzare l' entusiasmo e l' energie dei ragazzi è un peccato mortale, uno spreco con gravi conseguenze. Se un neo-laureato sta troppo tempo senza un impiego perde gli anni migliori e poi fa fatica a inserirsi nel mondo del lavoro».

    Allora che fare?
    «Io consiglio di cercare lavoro in Italia, ma se non lo si trova di andare all' estero. Prima in Europa e poi eventualmente anche in America».

    Quindi non la spaventa la fuga dei cervelli?
    «Che male c' è? Anzi, ben venga: ci si specializza altrove, si migliora e poi si può sempre tornare con un bagaglio di esperienza».

    O non tornare mai più come ha fatto lei. Di cosa si occupa ora?
    «Ho costituito con mia moglie la Federico and Elvia Faggin Foundation, organizzazione no-profit dedicata allo studio scientifico della consapevolezza, questione oggi considerata più filosofica che scientifica».

    Tradotto, lei si è chiesto se è possibile arrivare a un computer capace di avere sensazioni e sentimenti. Come e quando nasce questa idea?
    «Trent' anni fa volevo creare un microprocessore che imparasse da solo, mi chiedevo se fosse realizzabile. Sono cresciuto con questo problema intellettuale».

    E ha trovato una risposta?
    «Dieci anni fa sono giunto alla conclusione che è impossibile dare i sentimenti a un computer: la vita non può essere imprigionata in algoritmi, una macchina non può compiere scelte veramente creative, ossia scelte che non sono contenute nelle variabili che ha già immagazzinato. La consapevolezza non è un algoritmo, è libertà d' azione e questa è una proprietà solo degli esseri viventi».

    Scusi Faggin, ma qualcuno pensa ancora il contrario?
    «Alla Silicon Valley la maggior parte degli studiosi è tutt' ora convinta che entro 30 anni avremo dei robot consapevoli. Io sono una voce fuori dal coro».

    Computer, microchip, algoritmi. Lei è un supertecnologico nella vita? Scusi, perché sorride?
    «Non sono il tipico nerd, se è questo che intende. E nemmeno fissato sulle ultime novità tecnologiche. Guardi, questo è il mio i-Phone: sono rimasto al 4. Le innovazioni vanno sfruttate, non sfoggiate».
     

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    Buona questa. È sempre stato così? Torniamo indietro e raccontiamo il piccolo Faggin.
    «Nasco a Vicenza l' 1 dicembre 1941, bambino curioso e pieno di energia».

    Quando il primo interesse per la tecnologia?
    «A 11 anni gioco con un amico in un campetto e vedo un ragazzo che fa volare un aeroplanino. Resto stupefatto. Non ho soldi per comprarlo e decido di costruirlo da solo: lo disegno, lo progetto, compro i materiali, lo fabbrico e lo lancio».
     

    MICROCHIP MICROCHIP

    Vola?
    «Un flop, non si alza da terra. Ci riprovo, nulla. E capisco che anche per far volare un giocattolo bisogna studiare. Così compro il mio primo libro e poi studio radiotecnica per imparare a costruire una radio per telecomandare l' apparecchio. Nasce cosi la passione per l' elettronica».

    Ma alla fine l' aereo decolla o no?
    «Certo, e progettare aeroplani diventa il mio hobby. Lo faccio ancora».

    Il più curioso?
    «Un' ala volante».

    Restiamo a lei giovane. Scuole?
    «Mio padre, insegnante di storia e filosofia al Liceo classico, preme per farmi fare studi umanistici, ma io insito e mi iscrivo all' Istituto tecnico Industriale "Alessandro Rossi" di Vicenza».
     

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    Appena diplomato trova lavoro alla Olivetti a Borgolombardo, vicino Milano. E costruisce un computer da solo.
    «Di dimensioni ridotte, grande quanto un piccolo armadio. Un lavoro che poi, in piccola parte, servirà per arrivare all' Olivetti "Programma 101", il primo personal computer al mondo».

    Lavoro, ma anche università. Si iscrive a Fisica, a Padova, e si laurea nel 1965. Poi?
    «Vado a lavorare ad Agrate Brianza e mi mandano a fare un' esperienza all' estero, a Palo Alto, cuore della Silicon Valley, California. E nel '70 passo alla Intel che in quel momento è ancora una startup».
     

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    Le chiedono di occuparsi di un nuovo progetto: realizzare una famiglia di microchip per il produttore giapponese di calcolatrici Busicom. E arriva il momento che le cambia la vita, cambiandola anche a noi: l' invenzione del microprocessore 4004.
    «Il risultato di una serie di conoscenze accumulate fino a quel momento tra il lavoro fatto all' Olivetti, università e prime esperienze lavorative alla Fairchild e alla STMicro».

    Come ci arriva a un risultato così clamoroso?
    «Lavorando giorno e notte - 80 ore a settimana - perché il progetto Busicom è in ritardo di sei mesi e devo recuperare il tempo perso».
     

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    Ed ecco il momento della verità: il test definitivo.
    «Pochi giorni prima del Capodanno del 1971 arriva il chip. Sono tutto solo e fortunatamente nessuno vede quanto sono nervoso. Lo inserisco e...».
     

    Funziona!
    «Macché, non va proprio nulla. Provo, riprovo e, demoralizzato, osservo il chip al microscopio. E scopro che hanno sbagliato a costruirlo».
     

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    Allora ci riprova.
    «Tre settimane dopo arriva il nuovo chip. Sono solo, inizio a lavorare alle 18 e alle 4 di mattina è il momento decisivo. Ansia. Provo e questa volta è perfetto, il chip funziona!».

    E che fa?
    «Torno a casa da mia moglie Elvia che mi sta aspettando alzata e festeggiamo: dopo quasi nove mesi è nato l' Intel 4004, il primo microprocessore della storia che in 3 per 4 millimetri quadrati offre una potenza di calcolo superiore a quella dello storico Eniac, il primo computer elettronico al mondo costruito nel 1946».

    Con tanto di iniziali FF (Federico Faggin) sul dorso. Eppure nessuno, per uno po', le riconosce l' invenzione, che viene invece attribuita a Ted Hoff della Intel. Perché?
    «Perché fondo la Zilog, una ditta che compete con l' Intel».

    Per quale motivo?
    «Andy Grove, uno dei fondatori dell' Intel, mi minaccia: "Ti cancello dalla storia se lasci l' Intel».

    E come fa poi a ottenere giustizia?
    «Grazie a mia moglie Elvia e a un lungo lavoro fatto di lettere e puntualizzazioni alla stampa».
     

    steve jobs steve jobs

    Torniamo alla sua carriera.
    Alla Zilog lei mette a punto lo Z-80, uno dei chip più popolari realizzati. Poi se ne va e fonda la Cynet Technologies e poi ancora la Synaptics. Dove viene intentato il TouchPad.
    «Un' interfaccia uomo-computer diversa dalle solite. E poi il touchscreen trasparente».
     

    Che fa subito il boom.
    «Per niente, anzi... Per 5 anni andiamo in giro a proporlo ai produttori di telefonini che ci rimbalzano: "Non serve, nessuno abbandonerà mai la tastiera"».

    Lungimiranti. E poi?
    «La Apple Computer ci dimostra interesse e da lì cambia il mercato».

    A proposito di Apple, ha incontrato Steve Jobs?
    «Un uomo durissimo nel trattare, che cercava di fissare prezzi molto bassi e voleva l' esclusiva».

    E Bill Gates?
    «La prima volta che l' ho conosciuto aveva 20 anni, era molto spigliato ma sospettoso, guardingo. La seconda, negli Anni '80, era una persona cambiata, già alla Microsoft. Un uomo di successo con una certa aria di superiorità».
     

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    Faggin, ultime domande veloci.

    1) Musica preferita?
    «Classica: Bach, Vivaldi».

    2) Un film in cui avrebbe voluto vivere?
    «2001: Odissea nello spazio e Star Wars».

    3) Ha guadagnato molto con l' invenzione di microprocessore, touchpad e touchscreen?
    «Soltanto come fondatore delle ditte che hanno creato lo Z80, touchpad e touchscreen. All' Intel, dove ho progettato i primi quattro microprocessori, ero un impiegato con uno stock option che mi ha però permesso di comprare una casa di lusso».

    4) Rapporto con la religione?
    «Non sono più praticante. Credo nella spiritualità più che nei dogmi delle religioni organizzate».

    Ultimissima. Lei è convinto che la consapevolezza sia inerente all' energia di cui tutto è fatto. E la morte?Le fa paura?
    «No, è solo la fine del corpo. Penso che poi continueremo ad esistere in un altro mondo extra-fisico che non conosciamo».
     

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