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    "LA MALATTIA? CI SONO AVVENIMENTI CHE TI FANNO CAMBIARE. MA SONO UN PEZZO DI MERDA COME SEMPRE" - FEDEZ SI RACCONTA A "VANITY": "HO SCOPERTO IL TUMORE PER FORTUNA: MENTRE MI VISITAVANO, È PASSATA DI LÌ, PER CASO, UNA DOTTORESSA. HA GUARDATO IL MONITOR E HA RITENUTO CHE IL MIO PANCREAS NON FOSSE PROPRIO NELLA NORMA. LE DEVO LA VITA" - "I GIOVANI E IL LAVORO? VIVO TROPPO LONTANO PER POTER DARE CONSIGLI. SERVE LA FAME. PURTROPPO I MIEI FIGLI NON LA CONOSCERANNO MAI" - "L'IMPEGNO SOCIALE? IO NON MI BATTO. LO FA CAPPATO. L’HA FATTO GINO STRADA. LO FA CECILIA STRADA. NON SONO ALLA LORO ALTEZZA…"


     
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    Simone Marchetti per "Vanity Fair"

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    Ci sono tatuaggi che non hanno bisogno di inchiostro per essere visti. La cicatrice sullo stomaco di Fedez è uno di questi. «Guardatela: ora è liscia e guarita», ci dice girando per il set di questo servizio fotografico a petto nudo. «Prima faceva male, ora va molto meglio. I giorni immediatamente dopo l’intervento, ho sentito i miei organi che si mettevano a posto. L’intestino da una parte, il fegato dall’altra. Per operarmi, alcuni sono stati tolti dal mio corpo e messi sul tavolo, per esportare il tumore. Poi sono stati rimessi di nuovo all’interno, ma senza curarsi troppo dell’ordine. Perché, mi hanno spiegato i medici, tocca a loro ritornare nella posizione di sempre».

     

    Nella posizione di sempre sembra tornare anche la vita di Fedez. La musica. I concerti. La famiglia. Eppure, c’è qualcosa di nuovo in quest’uomo che non è più un ragazzo. È sempre iperattivo, determinato, «il solito pezzo di merda», dirà in questa intervista. Ma negli occhi di Federico un’ombra, o una luce, sta cambiando profondamente il volto di Fedez.

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    Come sta, Federico?

    «Bene. A parte il problema che dopo l’intervento mi sveglio sempre alle cinque del mattino. E non conta se vado a letto tardi. È come una maledizione».

     

    È stato contento di tornare a cantare dal vivo in piazza Duomo a Milano?

    «È stato pazzesco. Scusi, mi sta venendo uno svarione…».

     

    Tutto ok?

    «Sì, ora mi passa. Devo fare i conti con questa nuova fase. Con le medicine. Gli integratori. Gli enzimi pancreatici. Torniamo al concerto. Dicevo, è stato pazzesco. Avevo paura che non venisse nessuno. Quel giorno, il meteo prevedeva temporali e io ho passato tutto il tempo a guardare la webcam di piazza Duomo per vedere se si riempiva».

     

    Che cos’ha provato salendo di nuovo sul palco?

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    «Ero stranamente sereno. Non so perché. Avevo solo voglia di salire. In scaletta ero previsto alle undici di sera. Ma alle quattro del pomeriggio ero già lì, non riuscivo a stare a casa».

     

    Per il secondo anno è al primo posto delle classifiche con il brano La dolce vita. Come nasce una hit estiva? Come funziona? C’è una formula magica?

    «Dopo l’ultimo album mi sono detto che voglio lavorare soltanto sui singoli. Non so se farò ancora dischi. Mi piace concentrarmi su un solo pezzo perché la musica oggi va molto veloce. Mi sono accorto che facendo una canzone alla volta riesco a darle il giusto spazio, a raccontarla come voglio. Per l’estate, con i miei ragazzi portiamo avanti questo trend di prendere le canzoni anni ’60 per poi riarrangiarle in chiave attuale. Mille era un geghegé, La dolce vita è più un twist. L’anno scorso abbiamo coinvolto una leggenda della musica italiana, Orietta Berti. Quest’anno, invece, abbiamo scelto due giovani e un diversamente giovane, che poi sarei io».

     

    FEDEZ E LA CICATRICE SULLA PANCIA FEDEZ E LA CICATRICE SULLA PANCIA

    «Diversamente giovane»?

    «Non ho nemmeno 33 anni, ho i capelli bianchi, due figli e un tumore alle spalle. Posso dire che ho vissuto abbastanza vite per ritenermi diversamente giovane».

     

    Ha parlato molto del suo tumore. Ma come l’ha scoperto?

    «La verità?».

     

    Sì, per favore.

    «Destino. Fortuna. La chiami come vuole. Faccio un esame generale ogni sei mesi. Quando è arrivato il giorno dell’appuntamento, ho litigato con Chiara e mi sono presentato con due ore di ritardo. Mentre mi visitavano, è passata di lì, per caso, una dottoressa che non doveva passare di lì. Ha guardato il monitor e ha ritenuto che il mio pancreas non fosse proprio nella norma. Le devo la vita».

     

    FEDEZ E LA CICATRICE SULLA PANCIA FEDEZ E LA CICATRICE SULLA PANCIA

    Che cos’è successo dopo?

    «Ho avuto paura. Però ho voluto sapere tutto. Tutto. I medici sono stati chiari: da questa operazione puoi uscire vivo, morire nei giorni successivi, oppure non farcela durante l’intervento. È durata sei ore e mezza. Ma è andata bene e ora sono fuori pericolo, diciamo, al 99 per cento».

     

    La malattia, l’operazione… Come l’hanno cambiata?

    «Penso che nella vita si cambi sempre. Però poi ci sono avvenimenti che ti fanno cambiare profondamente. Sì, sono cambiato tantissimo. E sì, mi sono successe cose che avrei preferito non accadessero, ma l’epilogo mi fa ritenere molto fortunato. Mi tocco sempre i coglioni quando dico queste cose!».

     

    È cambiato con i suoi figli?

    «Non sono cambiato soltanto con loro. Sono cambiato con tutti. Ho compreso soprattutto quanto sia una perdita di tempo prestare il fianco a polemiche facili. Una volta mi facevo guidare dalla pancia, adesso ho priorità diverse perché il tempo che abbiamo su questa terra è limitato. E io non lo voglio più sprecare».

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    È diventato più mansueto?

    «No, no: sono un pezzo di merda come sempre. Semplicemente le esternazioni che prima facevo in pubblico ora le tengo per me».

     

    Torniamo ai suoi figli: avere una bambina, per un padre, è una grande prova.

    «Guardi, me lo dicono tutti. Però Vittoria è atipica. Mi ripetevano: vedrai come sarà legata al papà. In realtà è indipendente, al momento non ha un attaccamento preciso a qualcuno. Sono io ad avere un attaccamento speciale a lei. Anche a Leone, ovvio. Con mia figlia, però, sento proprio il bisogno, il desiderio di respirarla».

     

    Che cosa le fa paura?

    «Ora ho sempre paura di morire. Il mio mantra è uno: vivere abbastanza per essere ricordato dai miei figli. Lo so, è un mantra un po’ triste, ma è l’unica cosa veramente importante per me. La vera paura è che mi possa venire una recidiva. Però non dovrebbe succedere. E non succederà».

     

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    Con sua moglie Chiara che cos’è cambiato?

    «Quando accade un avvenimento come questo comprendi che la tua sofferenza è quasi minore rispetto a quella di chi sta al tuo fianco e fa di tutto per non farla trapelare, per nasconderla pur di supportarti, di darti la carica. Un evento del genere non può che fortificare un rapporto. Io non ho dubbi: quello che ci è accaduto ha rafforzato in maniera granitica il nostro rapporto».

     

    E con sua madre?

    «Idem. E se prima eravamo più anaffettivi, adesso lo siamo meno».

     

    In passato ha detto che voleva arrivare a 200 milioni, ora ha cambiato anche obiettivi…

    «Ma è un’estrapolazione da un podcast di due ore! Era la risposta a un trapper e si sa che ai trapper piacciono i soldi. Diciamo che come imprenditore avevo degli obiettivi che forse sono cambiati. Aver scelto di organizzare il concerto in piazza Duomo, per esempio, mi è costato oltre un milione di euro; e quando ho deciso di farlo non avevo nessuno sponsor ed ero disposto a pagare di tasca mia perché non me ne fregava nulla: avevo voglia di suonare, di regalare alla mia città un live benefico per accendere un riflettore sulla realtà di Tog e attivare una raccolta fondi. Non è che non abbia più obiettivi come imprenditore, però sto imparando a non farmi fagocitare da loro».

     

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    Lei si batte spesso per diverse cause. Da dove viene questo suo impegno?

    «Guardi, io non mi batto. Dico solo quello che penso. Marco Cappato è uno che si batte. E battersi vuol dire dedicare tutta la propria vita a uno scopo. Non faccio questo. Lo fa Cappato. L’ha fatto Gino Strada. Lo fa Cecilia Strada. Non sono alla loro altezza».

     

    Che cosa pensa della battaglia sul fine vita di Cappato?

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    «Sono un grande amico di Marco e appena posso gli offro il mio aiuto, le mie piattaforme. Ho una grande stima di lui e non lo invidio perché ha deciso di sacrificare la propria vita per gli altri. Questo significa battersi».

     

    Che cosa pensa del passo indietro della Corte Suprema Americana sull’aborto?

    «Un grande sbaglio. Ma a riguardo consiglio di tornare al nostro Paese. Trovo scandaloso che il Vaticano abbia preso la palla al balzo per introdursi nel dibattito sul diritto all’aborto. Ricordo sempre che il Vaticano tramite lo Ior ha fatto investimenti in aziende che producono farmaci come le pillole contraccettive. Questo fa capire come professino dogmi antichi quando hanno bisogno di portarli avanti, ma quando il denaro chiama, si comportano esattamente come un trapper o un rapper qualunque. Alla fine non siamo così diversi, no? A proposito, posso dire un’altra cosa?».

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    Prego.

    «Visto che abbiamo così tanta voglia di tornare indietro nel tempo e di riaffrontare discussioni del passato, proporrei allo Stato italiano la celebrazione della Breccia di Porta Pia, avvenimento che decretò la fine dello Stato Pontificio quale entità storico-politica».

     

    Restiamo in Italia. Si parla molto del nuovo valore del lavoro, dei giovani che chiedono salari più alti, più giusti. Che consiglio darebbe a chi ha 20 o 30 anni?

    «Ho lottato per scappare dalla classe sociale in cui sono nato e oggi vivo troppo lontano per poter dare consigli. Non riesco a fare come Briatore. Mi rendo conto della condizione di privilegio in cui vivo e l’unica cosa che posso fare è restituire un po’ del mio privilegio e della mia ricchezza in qualcosa di utile. Quello che invece posso fare come imprenditore è costruire un’azienda sana e io sono fiero di quella che ho costruito. In questo momento siamo quasi una trentina di persone e il 90 per cento è donna. E sono felice di aggiungere che cinque di queste donne sono rimaste incinte e hanno fatto figli».

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    Come si costruisce un’azienda?

    «Non ne ho idea. Bisogna creare un bel clima e non penso di esserci riuscito sempre, onestamente. Non credo nella favola dell’imprenditore dei miracoli. Però credo di essermi sempre comportato correttamente in tema di diritti».

     

    Che cosa la conquista di chi lavora con lei?

    «Non do valore agli attestati scolastici. Gli studi e l’esperienza servono, sono preziosi. Ma non bastano. Perché ci sono cose che i percorsi scolastici o lavorativi non ti possono insegnare. Una di queste è la fame. Quella te la insegna solo la strada».

     

    Come insegnerà la «fame» a Leone e a Vittoria?

    «Purtroppo non la conosceranno».

     

    E quindi?

    «Bisogna mettersi l’anima in pace e comprendere che il percorso dei genitori non potrà mai essere lo stesso dei figli. Bisogna cercare di trasmettere loro i valori e soprattutto ricordare quanto siano fortunati, far capire lo stato di privilegio in cui vivono. E poi è importante cercare di coinvolgerli: voglio portarli da Tog, voglio che quando saranno grandi vadano a dare una mano e che siano parte attiva delle iniziative che il papà porterà avanti».

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    Oggi chi deve ringraziare?

    «Sono tante le persone a cui devo essere riconoscente. Gli amici, perché senza di loro non sarei qui. La dottoressa che ha scoperto il tumore: era presente al concerto in piazza Duomo, ci siamo abbracciati e ci siamo commossi. E poi, i medici che mi hanno operato e mi hanno in cura».

     

    Lei dice che è tutto dipeso dalla fortuna, dal destino. Ci crede, nel destino?

    «Non credo in Dio, sono ateo. E non credo nel destino. Quello che mi è successo mi ha messo in crisi. È stato veramente strano. Continuo a credere che nella sfiga ci sia stata una grande botta di fortuna. È la vita. Vede, il mese prima di operarmi, ho perso mia zia per il Covid in una maniera tremenda e l’ho vissuta come una grande ingiustizia come per tutte le perdite che si possono avere. Era una malata oncologica che ha avuto una vita infernale ed è sempre stata super attenta a non prendere il Covid. È mancata in pochissimi giorni».

    fedez per yamamay fedez per yamamay

     

    Come spiega questi avvenimenti ai suoi figli?

    «Non glieli spiego perché sono troppo piccoli. Leone è cresciuto in piena pandemia, non ha avuto modo di conoscere sua zia. Io però ho un muro pieno di fotografie dove campeggia in alto la sua immagine e ogni tanto gli ricordo chi è quella persona là in alto. Ma ovviamente, non si rendono conto».

     

    E della sua malattia si sono resi conto?

    «Vittoria no, ha un anno. Leone invece sa. Sa che il papà ha una ferita, che è stato operato e che quando giochiamo alla Playstation deve fare piano se vuole sedersi sopra di me».

     

    Ultima domanda. 2032, tra dieci anni, dove sarà?

    «Vediamo. Avrò 42 anni e farò ancora quello che faccio oggi. Però vorrei altri figli, di sicuro almeno un altro. E poi mi piacerebbe che la maturità mi portasse ancora più serenità».

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