Vittorio Feltri per “Libero quotidiano”
isotta
Trovatomi davanti al libro di Paolo Isotta, dedicato a Verdi a Parigi (Marsilio, pagine 668, 28), ho subito capito che tutto avrei fatto con questo monumento alla musica, a Verdi, a Parigi, alla lingua italiana, fuorché sciuparlo girando le pagine con le mie dita indegne, e strapazzarlo con la mia ignoranza e lieve idiosincrasia nei confronti dell' opera lirica.
Strimpello il pianoforte, ho anche suonato l' organo in chiesa, evitando accuratamente la musica sacra e suscitato così il dispetto finto e il divertimento vero del prete, dato che avevo accompagnato l' elevazione dell' ostia con Summer Time.
Poi però prima di passare il volumone per una congrua recensione a un musicologo o a uno storico, ho piluccato qua e là, e ho scoperto tratti inediti del Cigno di Busseto, e una lettura originale del cuore e del cervello di questo genio padano (ma secondo Isotta pure "napoletano", quanto a scuola e ispirazione). Per cui mi sono immerso come un bambino che cerca di imparare a nuotare in queste acque profumate della prosa unica di Paolo Isotta, che - l' ho già scritto, ma mi piace ripetermi - è sì uno scienziato della concertazione, dell' armonia e della fuga (della figa no, proprio no), ma è per me il massimo cultore dell' arte della scrittura, che risuona come uno Stradivari di echi antichissimi, e rime nuove.
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Questa biografia parigina di Verdi diventa così una sorta di poema universale, dove al lettore viene offerto il «ritratto generale, estetico e anche politico» di Giuseppe Verdi, ma il tutto scavando nelle partiture ritrovate e dimenticate, nelle interpretazioni vere e fasulle del Don Carlos (capolavoro assoluto di Verdi, secondo Isotta, purché riproposto in cinque atti e non in quattro, ché sarebbe bestemmia).
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Salta fuori quella che a me affascina sempre di più, mano a mano che lo leggo: l' idea della vita e il giudizio sul mondo in generale, e sull' Italia in particolare, di Paolino (Isotta), mio imperdibile amico.
È doverosa una sintesi delle tesi di questo lavoro, che nonostante la mole, è stato scritto di getto, in pochissimi mesi. Stessa caratteristica delle creazioni di Verdi: era come se l' animo si caricasse delle acque montane, e poi tracimasse di colpo a valle, per inesorabile destino.
Così il sapere di Isotta sul grande emiliano, musicista sommo, drammaturgo geniale, industriale agricolo d' avanguardia anche sociale, filantropo (un ospedale da lui voluto, e pagato!, a Villanova d' Arda è ancora funzionante, ed è da sempre un' eccellenza, oggi dedicato alla riabilitazione) si è accumulato per decenni, fino a rovesciarsi sulle pagine. Il problema è che l' italiano di Isotta è intraducibile. Non si può sintetizzare. Ci si immerge. Ci provo, fate la tara.
Scrive Isotta che, parlando di Verdi, il periodo francese è spesso dimenticato da molti. Si parla sempre della Trilogia Popolare (Rigoletto, Il trovatore e La traviata), dell' Otello e dell' Aida. Eppure, tra i capolavori massimi del Cigno di Busseto c' è il Don Carlo. Anzi, il Don Carlos: la lingua originaria di quest' opera, frequentata dai teatri meno di quanto meriti, è il francese.
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Don Carlos andò in scena all' Opéra di Parigi. In quell' epoca, nella seconda metà dell' Ottocento, Parigi era la capitale culturale e mondana (oltre che demi-mondana) d' Europa, un po' come New York oggi.
Quello che sfondava a Parigi, dava garanzie d' aver successo anche altrove.
mai da comprimario Qui, per consuetudine, all' Opéra andavano in scena i grandi drammi storici in cinque atti di compositori come Meyerbeer o Halévy.
Che fece Verdi? Si adeguò alla convenzione, tuttavia non da comprimario. Secondo Isotta, proprio da Verdi, dal Verdi italiano, parmense, campagnolo, nacque il più grande tra questi "grand opéra" (così tecnicamente si chiamano). E certo non è un caso se l' altro grandissimo esempio di questo genere venne da Rossini, col suo Guglielmo Tell (anzi, Guillaume Tell). Lo stesso Meyerbeer, capofila del genere, prima di recarsi a Parigi ebbe un lungo periodo di gavetta operistica in Italia.
GIUSEPPE VERDI FOTO D EPOCA
Per cui, è sbagliato ridurre Verdi, come ha fatto troppa critica italiana, a provinciale fenomeno patriottardo italico. Così com' è un errore derubricarlo a stanco e opportunistico volpone, capace di adeguarsi alle grandi convenzioni sceniche francesi (ivi compresa la presenza del balletto, che nel Don Carlos si chiama La Peregrina), ma quasi di malavoglia e per pure esigenze alimentari, ossia di franchi sonanti.
Nossignori: Isotta richiama la profonda immedesimazione anche estetica del maestro di Busseto in queste convenzioni, forse sclerotizzate ma all' epoca normative a Parigi.
In parole povere: Verdi è un uomo di teatro, capace di sguazzare nell' elemento teatrale in ogni sua forma. Il teatro francese, forse ancor più di quello italiano, aveva mantenuto un particolare legame tra musica e parole, e pure in prosa era un "teatro di parola" forse più di ogni altro. Bene: sappiamo (quasi) tutti quanto Verdi tenesse alla «Parola scenica» (sono espressioni sue). Naturale che in un teatro del genere si trovasse a suo agio, altro che passivo adeguamento.
il coraggio La grandezza di Verdi nell' opera francese, per Isotta, consiste nella capacità di mettere a nudo l' umanità, anche in un organismo così sovraccarico di orpelli melodrammatici (anzi «funzioni teatrali», Paulinus scripsit), danze, balletti, divagazioni.
SPARTITO GIUSEPPE VERDI
È il miracolo del raggiungimento dell' essenzialità, del cuore del problema, anche in carrozzoni esteriori come quelli che andavano per la maggiore a Parigi. E questo, dice Isotta, a ben vedere è ciò che rende il maestro italiano prossimo a Wagner: la focalizzazione sul carattere dell' uomo.
Pagato il prezzo alla musicologia, balzo in considerazioni che riguardano l' autore del grandioso tomo. Pur stimandosi moltissimo, Isotta ha il coraggio di fustigarsi per gli antichi errori.
Dopo aver passato a filo di penna gli ignoranti che motivano la riduzione a quattro atti del Don Carlos per ragioni estetiche, e «i cretini» che invece lo spiegano con il «cinismo» di Verdi, Isotta si include nel novero degli sciagurati: «Alla pletora debbo aggiungere anche me stesso. Per superficialità e mala disposizione non avevo per lunghi anni affrontato il caso studiando seriamente, ossia studiando, ed ero, horribile dictu, paladino della versione in quattro anni», pag.557). Eh sì, horribile dictu!
Ti perdono.
LETTERA GIUSEPPE VERDI
Quanto alla visione della vita e al sapore delle cose ci sono alcune note della Postilla finale sul "Verdi italiano" che meritano un prossimo libro. Isotta protesta contro il blaterare di chi vorrebbe il maestro di Busseto come colui che «ha contribuito a creare gli italiani, a conformarli al suo modello etico» (pag. 644). Falso. È stato sì uno dei padri della patria, protagonista del Risorgimento. Ma «non è il modello dell' italiano. Ne è l' antimodello. È l' italiano che avrebbe dovuto e potuto essere e non è stato. Gli italiani veri ed eterni sono Don Abbondio e Don Rodrigo, due risvolti della stessa persona; quello attuale lo vediamo nelle opere di Fellini e Sordi, anch' essi degni di esser collocati nel pantheon per la spietata visione della realtà» (pag. 647).
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Purtroppo, scrive Isotta, noi italiani fingendo di adorarlo, abbiamo rinnegato Verdi. «L' uomo per il quale il rispetto della parola data, l' adempimento dell' obbligazione, erano un valore di peso quasi religioso». Figuriamoci... «Gl' italiani hanno sviluppato l' arte per non adempire, sono diventati da fascisti antifascisti in ventiquattr' ore».
Conclusione: «Una Nazione che rinnega le radici è priva di presente e di futuro».
Isotta con questa sua esplosiva fatica ha fatto il suo per farcele ritrovare. Come diceva Kant: «Fa' quel che devi, accada quel che può». Ma si può poco, temo ormai.
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VERDI isotta cover verdi