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    FOCOLAIO CAPITALE – IL SAN RAFFAELE DI ROMA STA DIVENTANDO UNA BOMBA SANITARIA: I CASI SONO IN TOTALE 99, I MORTI 5 – INDAGA LA PROCURA, IL SOSPETTO: "VIRUS QUI DA OLTRE UN MESE" - LO PNEUMOLOGO VITTORIO BISOGNI, CHE HA LAVORATO UN MESE E MEZZO IN LOMBARDIA E POI SI È BECCATO IL VIRUS NELLA CAPITALE: “SONO ANDATO A FARE VISITA A UN MIO PAZIENTE, CHE ERA STATO DIMESSO DA POCHI GIORNI E…”


     
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    Da www.ilmessaggero.it

     

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    Sono in totale «93 i casi positivi» del focolaio coronavirus dell'Irccs San Raffaele Pisana. Un cluster che «si dimostra impegnativo, ma il sistema dei doppi controlli sta funzionando, grazie alla tempestività degli interventi messi in atto sono stati individuati questi nuovi casi che erano negativi ai tamponi precedenti». Lo sottolinea l'Unità di crisi Covid-19 della Regione Lazio.

     

    «Apprendiamo ora dalla Asl Roma 3 che dai tamponi di controllo eseguiti ieri, a distanza di 5 giorni dalla prima tornata, sono emersi altri 16 casi positivi presso l'Irccs San Raffaele Pisana: 14 pazienti, tutti collegabili con i primi pazienti positivi nella struttura, e due operatori. I pazienti sono tutti in trasferimento verso l'Istituto Spallanzani ed è stato dato mandato alla struttura San Raffaele di comunicare tempestivamente le informazioni ai famigliari».

     

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    Lo evidenzia una nota dell'Unità di crisi Covid-19 Regione Lazio. «I due dipendenti positivi sono un operatore sociosanitario e un fisioterapista in sorveglianza a domicilio. È stato possibile individuare questi nuovi positivi grazie ai tamponi di controllo, eseguiti dopo 5 giorni dai primi tamponi, a tutti i pazienti e gli operatori rimasti nella struttura», aggiunge la Regione Lazio.

     

    2 – CORONAVIRUS SAN RAFFAELE, LO PNEUMOLOGO: «IO, 42 GIORNI IN LOMBARDIA, INFETTATO DAL FOCOLAIO ROMANO»

    Fabio Rossi per www.ilmessaggero.it

     

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    Vittorio Bisogni, pneumologo dell'ospedale San Pietro-Fatebenefratelli, ha passato sei settimane in prima linea, nel Bergamasco, a curare i pazienti di Covid nei giorni più duri della pandemia. Poi, tornato a casa, è stato suo malgrado contagiato dal coronavirus nel focolaio del San Raffaele.

     

    «Ho fatto parte del primo contingente della task-force dei medici della protezione civile: io sono stato a Treviglio-Bergamo ovest per 42 giorni. Poi, il 5 maggio sono tornato a Roma, dove lavoro all'ospedale San Pietro e, come libero professionista, nel mio studio di Guidonia».

     

    E poi cosa le è successo?

    «Tutti i tamponi e i test a cui mi sono sottoposto, in un mese e mezzo di lavoro in terapia sub-intensiva in Lombardia, sono risultati tutti negativi. Così come il tampone fatto il 27 maggio al San Pietro (il quarto per me), prima di tornare a lavorare in ospedale».

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    Fino a quando non le è capitata una situazione sfortunata.

    «Il 1° giugno sono andato a fare visita a un mio paziente, che era stato dimesso da pochi giorni dal San Raffaele ed è successivamente risultato positivo. Così mi sono preso il virus anche io».

     

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    Ora come sta?

     

    «Lunedì scorso ho fatto il tampone, che è risultato positivo. Sono asintomatico, o meglio paucisintomatico, con un po' di raffreddore».

     

    La sua sfortuna è stata quella di incrociare, sia pur indirettamente, il focolaio del San Raffaele.

    «Quello del San Raffaele è solo uno dei tanti cluster, non è pensabile che sia solo lì. Gli ospedali sono stati il maggiore focolaio di diffusione della Covid, nell'Italia settentrionale come nelle altre regioni del mondo».

     

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    Perché, secondo lei?

    «Se un paziente Covid va in una struttura in cui non ci sono percorsi differenziati, se i malati non sono ben isolati e non vengono fatti controlli continui, si rischia la diffusione del virus nei reparti cosiddetti bianchi, dove non ci sono ufficialmente malati di Covid e i parenti possono andare liberamente a visitare i pazienti. A quel punto si crea un focolaio molto importante».

     

    I dati del contagio non sono rassicuranti?

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    «Il virus non ci ha abbandonato. Tanto è vero che io, pur utilizzando tutti i dispositivi di protezione - mascherina Ffp3, visiera, guanti e disinfezione degli strumenti - sono stati infettato, magari in un momento che mi ero fermato un attimo per bere, perché assistere un paziente grave con tutte quelle precauzioni ti fa disidratare. La mia esperienza deve servire a ribadire che non va assolutamente abbassata la guardia».

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