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    FOSSATI RACCONTA GABER: “NON ESISTEVANO DUE GABER, UNO LEGGERO IN ETÀ GIOVANILE E L’ALTRO IMPEGNATO, SERIO E RIFLESSIVO. MA E’ LA FELICE ALCHIMIA TRA ALTO E BASSO CHE SI PUO’ RITROVARE LA DEFINIZIONE DI UN GENIO ASSOLUTO” - AL PARI DEL GUCCINI CHE SI FACEVA PAGARE IL CINEMA DALLE AMANTI, GIORGIO SI ERA PRESENTATO SENZA PORTAFOGLI AL PRIMO PRANZO CON OMBRETTA COLLI


     
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    Malcom Pagani per https://www.vanityfair.it

     

    ivano fossati ivano fossati

    All’ultima inquadratura, il Signor G lasciò la scena. «E abbandonò la tv, in cui era la popolarissima stella dei duetti con Mina, per andare a ritrovare in teatro la verità che davanti alla telecamera era impossibile inseguire».

     

    Sostiene Ivano Fossati che l’eresia di Gaber, la «sua deviazione dal percorso più ovvio», la sua diserzione consapevole dal successo: «Ovunque, ma soprattutto in Italia», non abbia termini di paragone. Non solo perché già nel 1970 teorizzava la distanza dal denaro: «Penso che riuscendo a guadagnare una lira in più di quel che serve a vivere discretamente possa definirmi ricco a pieno titolo».

     

    E non soltanto perché al pari del Guccini che si faceva pagare il cinema dalle amanti stupite Giorgio si era presentato senza portafogli al primo pranzo con Ombretta Colli. Nella scelta di evadere dal cielo del Truman Show televisivo: «Dove ogni cosa è costruita e preparata» per aprire la porta e dirigersi in direzione di un nuovo progetto, c’era di più: «Una volta gli domandai come mai non facesse concerti nei palazzetti e lui rispose di getto: “Ma scusa Ivano, a te piace lavorare tutte le sere?”».

     

    Mina Stralunata con Giorgio Gaber Mina Stralunata con Giorgio Gaber

    Come tutti i grandi autori teatrali, Gaber aveva fatto del teatro casa sua. E voleva esserci, anche fisicamente. Aveva bisogno di quel luogo, bisogno di incontrare la gente ogni sera e sapeva altrettanto bene ciò di cui non aveva alcuna necessità. Il mondo dei discografici. Lo studio di registrazione. I grandi spazi.

     

    La cornice inutile appesa al muro nell’attesa che qualcuno comprasse i suoi dischi. Lui la gente voleva vederla in faccia, parlarle, avere un contatto costante nella dialettica e nello scambio. Viveva per questo senza mai considerarla una fatica. Terminava i suoi concerti stravolto, sudato, trasfigurato. Con le maniche arrotolate e gli occhi in fiamme. Felice. Era il suo miracolo, un miracolo che Giorgio voleva veder ripetere quotidianamente».

     

    ivano fossati ivano fossati

    Con il naso triste come una salita e il sorriso al tempo stesso maturo e infantile, cantava: «Sarei certo di cambiare la mia vita se potessi cominciare a dire noi». Lo fece esplorando la zona del dubbio e del paradosso, dragando la palude della coscienza, irridendo le grandi chiese politiche che pretendevano di dettare decaloghi comportamentali: «Giorgio voleva essere se stesso fino in fondo e sapeva che provarci davanti a mille individui era più semplice che tentare l’azzardo di fronte a milioni di persone. Più la platea si allarga e più la verità si nasconde. E Gaber era molto più interessato alla verità che a se stesso».

     

    Giorgio Gaber con la figlia Dalia Giorgio Gaber con la figlia Dalia

    Solitario anarchico, irriducibile individualista, cinico libertario, clochard, al pari dell’amico Jannacci, sotto i porticati della poesia che non pretende ripari comodi e protetti, qualunquista, persino.

     

    Su Gaber e sul suo segno, tanto si è detto e molto si è scritto con un’ansia di definizione che a Fossati pare vana: «Di Gaber mi è sempre piaciuto tutto. Il periodo televisivo, le canzoni, il teatro, l’ironia, la generosità, l’intelligenza acutissima. Fu grande fin dal suo apparire, nel 1958, e sono certo che non esistano due Gaber, uno leggero in età giovanile e l’altro impegnato, serio e riflessivo. Ma che proprio nella felice alchimia tra basso e alto o se preferisce tra alto e basso si possa ritrovare il suo spirito più autentico e la definizione, ancorché vaga, di un genio assoluto».

    mina e giorgio gaber mina e giorgio gaber

     

    Lavorando a quindici canzoni (e a un disco, Le donne di ora, con un omonimo inedito in uscita il 23 marzo a quindici anni dalla scomparsa che si propone, dice Fossati, di portare alla luce «le sue prime incisioni e le ultime canzoni») l’obiettivo unico è provare a diradare la nebulosa: «Fornendo un prontuario, un breviario per comprendere, un manuale di pronto consumo utile a spiegare il Signor G a un alieno in visita sul nostro pianeta».

     

    giorgio gaber giorgio gaber

    Che Gaber fosse un marziano, giura Fossati, non è materia di discussione. Per il pensiero e per la voce: «Una voce profonda, espressiva, ricchissima che si esprimeva attraverso una forma, il Teatro-Canzone, che abbiamo data per acquisita senza soffermarci sufficientemente sulla portata della sua rivoluzione concettuale. Gaber non è stato unico solo per quello che ha scritto o per quello che ha detto, ma lo è stato perché ha delimitato il suo spazio. Ha segnato i punti cardinali del suo campo di battaglia e poi, una volta in teatro, senza armature, ha combattuto davvero».

     

    giorgio gaber e enzo jannacci giorgio gaber e enzo jannacci

    C’è sempre un prima e un dopo, e nella vita precedente, prima di dire addio alle scene, tra un brano donato a un’altra voce e un concerto, sul palco, salì proficuamente anche Fossati. Concludeva le sue esibizioni cingendo le mani, mimando un inchino. «Il momento che preferivo arrivava dopo lo spettacolo, quando le membra si rilassavano e ci si sedeva finalmente intorno a un tavolo, con gli amici, a bere, a ridere, a scherzare. I palchi di Giorgio invece erano dei ring. Si rideva e si piangeva.

     

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    Da parte del pubblico c’era un coinvolgimento non solo mentale, ma anche fisico. Se c’è una cosa che Gaber mi ha insegnato è a stare in scena. Un’arte che ha profondamente a che fare con il teatro e che, unico tra tutti i cantanti, Giorgio era il solo a conoscere a fondo. L’unico che con il gesto di una mano sapeva di poter ottenere un effetto sul pubblico. Anche io come Giorgio, ma con meno talento, ho sempre dato enorme importanza a quella che accademicamente si chiamerebbe l’arte scenica».

     

    Lo spettacolo d’arte varia di uno innamorato di loro, dice Fossati, rendeva un’esibizione di Gaber differente da tutte le altre. Diversa e lontana da tutto. Dagli epigoni e dalla politica che ogni cosa, a partire dai piedi: «Le scarpette da ginnastica o da tennis hanno ancora un gusto un po’ di destra/ ma portarle tutte sporche o un po’ slacciate è da scemi più che di sinistra», voleva veder camminare in fila per tre. La destra lo detestava.

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    Dai «grigi compagni del Pci» e dal sospetto dell’appartenenza relativa: «Nonostante sul concetto di appartenenza, paradossalmente, Gaber avesse lavorato a lungo» amato non era. Non sono più «compagno né femministaiolo militante» argomentava il Signor G.

     

    «Che era plasticamente solo e drasticamente libero», dice Fossati: «Perché il suo pensiero, non fornendo appigli, indulgenze o giustificazioni, risultava essere troppa roba per chiunque. L’istanza della libertà individuale, una specie di umanesimo moderno, rappresentava molto più di una visione politica. Era parte di un’essenza che non lo rendeva semplicemente scomodo, ma lo rendeva inarrivabile».

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    La gente osservandolo, ricorda Fossati, «restava a bocca aperta. Giorgio si era inventato una formula che prevedeva una grammatica del pensiero in un’epoca in cui solo ragionare su qualcosa di diverso dal semplice concerto era già blasfemo. Il pubblico rimaneva lì, quasi rapito, ad ascoltare qualcosa che forse non decrittava chiaramente, ma assorbiva in maniera sacrale».

     

    Della religione gaberiana, una religione atemporale, un ossimoro ancestrale e modernissimo, i primi testimoni si sono preoccupati di tramandare il verbo fino a oggi. Anche se Giorgio, volato via a 63 anni, apparentemente non c’è più. Resta, come si dice in questi casi, un vento che non ha smesso di soffiare. Se la tempesta di un miracolo ce lo facesse immaginare ancora qui, dice Fossati, la contemporaneità sarebbe illuminata all’improvviso da un’altra luce: «Oggi Gaber sarebbe gigantesco. Dopo la saggia e tardiva decisione di tornare a cantare, trovò come per incanto il suo pubblico ad aspettarlo. E ne fu sorpreso, meravigliato, come chi assiste a un prodigio di cui non sa spiegarsi nessi e ragioni».

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    Gaber l’artigiano: «Una parola che ho sempre preferito ad artista perché il nostro mestiere è per il 30 per cento ispirazione e per tutto il resto lavoro duro, applicazione, impegno», resterà un enigma. «Non riusciamo ad afferrare tutto ed è bellissimo che sia così. Possiamo ragionare su quel che ha fatto, sul segno che ha lasciato e sull’esempio che ha tramandato. Ma cosa fosse davvero l’ha saputo soltanto lui. Indagare è inutile, incasellare è sciocco, stiparlo in un cassetto ingiusto e sbagliato. Gaber è stato Gaber». Anni affollati, per fortuna siete già passati.

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