Michelangelo Borrillo per “Dataroom – Corriere della Sera”
Video di Milena Gabanelli
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Poco più di un miliardo, 1.083 milioni per la precisione. Il tesoro della famiglia Riva, scovato nel 2013 dai magistrati milanesi in Svizzera e disponibile da giugno 2017, è vincolato al risanamento ambientale (decontaminazione e bonifica) dell’area Ilva di Taranto. Due anni dopo, di quella somma sono stati spesi o allocati (più allocati che spesi) 635 milioni fra decontaminazione, gestione e trattamento di acque e rifiuti e bonifica e messa in sicurezza delle discariche, così come emerge dalle ultime audizioni pubbliche in Parlamento dei commissari straordinari Piero Gnudi, Corrado Carrubba ed Enrico Laghi.
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Dal 1° giugno hanno lasciato spazio ai loro successori, i pugliesi Francesco Ardito (commercialista e dirigente di Acquedotto Pugliese) e Antonio Lupo (avvocato amministrativista di Grottaglie) e il lombardo Antonio Cattaneo (partner di Deloitte). Quest’ultimo, prima ancora di insediarsi ha deciso di rinunciare all’incarico per evitare un conflitto d’interesse: tra gli «audit client» di Deloitte c’è una società che controlla una controparte di ArcelorMittal, oggi nuova proprietaria di Ilva. Ufficialmente i commissari uscenti si sono dimessi dopo aver portato a termine il passaggio ad ArcelorMittal, conclusosi il 1° novembre 2018. In realtà il cambio della guardia è stata una scelta del ministro Luigi Di Maio che ha voluto iniziare quella che lo stesso vicepremier chiama la Fase 2 di Taranto e dell’acciaieria. Che, però, inizia già zoppa: con un commissario in meno.
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Il mezzo miliardo da spendere
Tornando ai conti: in cassa sono rimasti circa 450 milioni, né allocati né spesi. Dovrebbero essere destinati ad altri interventi di bonifica dell’area Ilva, che però sono attualmente sotto sequestro, come quelle delle discariche adiacenti alla gravina Leucaspide, alla Cava Mater Gratiae e quella delle collinette che separano l’acciaieria dal quartiere Tamburi. Che, da «ecologiche» — avrebbero dovuto preservare il quartiere dall’inquinamento dell’acciaieria — si sono trasformate in altre discariche, così inquinate che i ragazzi iscritti alle vicine scuole «De Carolis» e «Deledda» nell’ultimo anno scolastico hanno dovuto frequentare le lezioni in aule di altri istituti.
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Un paradosso, visto che si tratta di due scuole (su un totale di 5) rimesse a norma, nel 2016, con 9 milioni di euro di un’altra bonifica, quella dell’area Sin (Sito di interesse nazionale) di cui è commissario dal 2014 Vera Corbelli. Considerando che per le aree sequestrate ogni intervento andrà pensato di concerto con l’autorità giudiziaria, con i 450 milioni da allocare, per ora i nuovi commissari potranno fare ben poco. Per questo c’è il timore che possano essere dirottati altrove, nonostante una norma li vincoli al risanamento di Taranto. Perché una legge (la 123 dell’agosto 2017) può essere superata da un’altra, se il governo lo volesse per decreto.
L’inquinamento di un secolo
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L’inquinamento di Taranto non riguarda solo l’aerea ex Ilva. Come dimostra anche la bonifica dell’area Sin, individuata nel 2000, quando si prese atto che le industrie del Novecento — da quelle belliche delle due guerre mondiali, fino alle cementerie, alle raffinerie e all’acciaieria — non avevano la stessa coscienza ambientale di oggi. E inquinavano. Con tutte le conseguenze nefaste del caso: nell’arco di 14 anni, dal 2002 al 2015, nel Sin di Taranto sono nati 600 bambini malformati e si sono registrati oltre 40 tumori in età pediatrica e nel primo anno di vita, come emerge dall’aggiornamento dello studio epidemiologico Sentieri. Con questi dati, si capisce perché il nuovo ospedale da 715 posti letto su 6 piani, non solo è uno degli investimenti più rilevanti del Contratto istituzionale di sviluppo per l’area di Taranto, ma è un simbolo per la città dell’acciaio. Stanziati i 200 milioni: il progetto risale al 2012, il bando per la costruzione al 2018.
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Ma adesso, quando tutto è pronto per far partire il cantiere, si scopre che l’area in cui deve sorgere è limitrofa rispetto a Salina Grande, area sequestrata per inquinamento, con un’estensione pari a 9,8 chilometri quadrati. All’interno del Sin. Ebbene, qualsiasi attività che nella Salina Grande provochi il solo alzarsi delle polveri è vietata perché mette a rischio la salute. E a soli 800 metri da quel confine dovrebbe sorgere un ospedale.
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La bonifica, secondo il commissario Corbelli, potrà essere conclusa entro 48 mesi dal suo inizio. Il problema, però, è che non si sa quando inizierà, perché dovrà prima completarsi un percorso amministrativo, istituzionale e giuridico che coinvolge Regione, Comune, Provincia e lo Stato. Senza considerare che l’area in questione è di un privato.
Il patto incrinato con ArcelorMittal
In questo contesto confuso, nelle scorse settimane sono emerse altre due variabili. La prima è politico-istituzionale: il ministero dell’Ambiente ha infatti deciso di modificare le prescrizioni anti-inquinamento per l’acciaieria ArcelorMittal Italia, firmando un decreto per riesaminare l’Autorizzazione integrata ambientale (Aia).
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Cosa cambierà? Per ora non si sa. Il ministro Sergio Costa (M5S) si è limitato a far sapere che «si procederà eventualmente fissando più adeguate condizioni di esercizio». Eventualmente. Ma l’incertezza non piace ad ArcelorMittal. «Abbiamo preso un impegno — ha dichiarato l’ ad Matthieu Jehl — e fatto un contratto con Ilva con un certo quadro di leggi. Dobbiamo andare avanti con la certezza che questo quadro c’è». Il quadro, però, lo sta modificando anche ArcelorMittal. E qui interviene la seconda variabile, quella industriale. Il gruppo guidato dalla famiglia indiana Mittal, infatti, a meno di dieci mesi dall’accordo ha deciso per lo stabilimento di Taranto di dar via alla cassa integrazione. A causa della crisi di mercato.
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Dal 1° luglio, per 13 settimane (quindi fino a tutto settembre), 1.400 dipendenti al giorno (sugli 8.200 dello stabilimento pugliese, il 17% della forza lavoro) saranno in cassa integrazione ordinaria. Dall’accordo firmato a settembre al Mise — con il quale il gruppo ha assunto 10.700 persone — erano rimasti fuori i 2.586 esuberi passati all’Ilva, in amministrazione straordinaria, in cassa integrazione. Neanche quando la guidavano i commissari si erano raggiunte le 4 mila unità in cassa integrazione (si era arrivati al massimo a 3.300). Ma, appunto, all’epoca, l’acciaieria era guidata dall’amministrazione straordinaria. Non dal più grande gruppo siderurgico del mondo.
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