Giorgio Terruzzi per il “Corriere della Sera”
giacomo agostini
Si muove come un ragazzo nella sua casa sui colli di Bergamo, con annesso museo colmo di fotografie, moto, trofei. Quattro galline per le uova della prima colazione da spartire con la moglie Maria, i bagagli pronti per l'Isola di Man, ospite fisso del Tourist Trophy. Il principe del Bahrein che lo aspetta per fare un giro su quelle strade infernali. Giacomo Agostini compie 80 anni (16 giugno) ma il suo orologio pare fermo da un pezzo. Un uomo fortunato.
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Un campione che ha cercato la propria fortuna con una cocciutaggine che non stinge.
Quindici titoli mondiali, 123 vittorie. Adesso possiamo dirlo: imbattibile.
«Mah, effettivamente... Ci ha provato Mick Doohan, si è avvicinato Valentino ma si è fermato a quota 9 con 115 vittorie. Marquez diceva: non voglio batterti. Risposi: non è vero, puoi farcela. A patto di invitarmi alla festa. È in difficoltà, povero Marc, non so se riuscirà a tornare quel fenomeno che è stato».
Moglie andalusa, due figli, Victoria e Giacomino. Il curriculum del marito e del padre si avvicina a quello sportivo?
«L'amore c'è, su tutti i fronti. Ero innamorato delle due ruote. Qualcuno mi chiese se è mai esistito un piano B. Macché. Troppa gioia. È bello provarci e poi vincere una gara e poi un campionato italiano e poi un titolo mondiale. Non mi aspettavo di ricevere così tanto. In Belgio, avevo 25 anni, c'erano i minatori italiani a vedermi. Ripetevano: grazie, domani porteremo là sotto il nostro tricolore. Era una rivalsa preziosa. Sono stato a visitare quelle miniere e ho compreso da adulto ciò che non comprendevo allora.
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La famiglia è una cosa diversa. Non volevo sposarmi, mi sono deciso a 46 anni. Molti colleghi portavano in pista la famiglia. Vedevo i bambini salutare papà in griglia. Pensavo: non riuscirei mai a farlo. Si moriva in un attimo allora. Più avanti è stato più facile ed è stato bello condividere, crescere i figli, volersi bene, comprenderci. Sì, due tipi di amore».
Attorno alla sua moto, una quantità di tragedie. Si considera un sopravvissuto?
«Sì. Nonostante fossi attentissimo, mi rendevo conto che poteva succedere qualcosa di grave in un secondo. C'è chi dice che bisogna saper cadere. Balle. Quando cadi non sai mai come va a finire. Eppure prevaleva l'idea che a me, in fin dei conti, non sarebbe accaduto nulla di tremendo. Viene giù un aereo e vai all'aeroporto pensando: beh, non accadrà un'altra volta. È un po' lo stesso. Fortuna, destino, chissà: sono volato in un prato enorme, niente. Bill Ivy è caduto nello stesso prato, c'era un pilastro, l'ha centrato in pieno».
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Agli esordi: maglia gialla, numero di gara 46. Sono impressionanti le analogie con Valentino «Era il 1965, un'amica disse: sotto la tuta nera sta bene il giallo. Ecco. Sì, molte analogie. Moto Yamaha, famiglia con bambina pure lui, entrambi abbiamo corso in macchina. E doti simili».
Entrambi piloti Ferrari, con l'ipotesi di fare sul serio. Sino a che punto?
«Enzo Ferrari mi fece provare una macchina a Modena. Disse: se vuoi correre con noi il posto c'è. Ero lusingato caspita, la Ferrari! Tre giorni e tre notti a riflettere. Alla fine pensai che avevo scelto la moto sin da bambino, che la mia passione era quella lì. Come un dono ricevuto misteriosamente. Vincevo, ero felice: perché tradire ciò che la natura mi aveva dato?».
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Chi la conosce bene parla di disciplina monacale prima delle corse e di una pignoleria ossessiva. Tutto vero?
«Forse sono nato così. Ancora adesso preparo la valigia nei dettagli con largo anticipo. Ai meccanici dell'MV, espertissimi, facevo una quantità di domande, volevo controllare questo e quello anche se ero l'ultimo arrivato. Si indispettivano, mi frenavo. Sino a quando saltò una catena non verificata. Da allora fu rispetto reciproco. Desideravo che tutto fosse al cento per cento. Sì, ma dovevo essere allo stesso livello pure io. Cominciai a prepararmi fisicamente, a curare l'alimentazione, ad evitare di fare la bella vita. Alle 23, a letto. Solo. Trasgredii una sola volta, a Riccione, era una bella sera, era bella la ragazza e stavamo su un gommone cullato dall'acqua. Pentitissimo. Il giorno dopo vinsi ma non bastò a farmi cambiare regola».
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Pietro Germi voleva trasformarla in un attore impegnato?
«Ma sì. Mandò il copione. Dissi: guardi che non sono capace. Lui: non ti preoccupare, ci penso io. Arrivò il contratto. Inizio riprese primi di marzo, 4 mesi di lavorazione. Ma come? Il 19 marzo inizia il Mondiale. Ci rimase male».
Rotocalchi, gossip. La fama del playboy aveva qualche fondamento?
«Ero giovane, celebre, non brutto. Ma è accaduto ben meno di quanto si creda».
Incontri indimenticabili. Chi le viene in mente?
«Muhammad Alì, una serata insieme, io affascinato dalla sua personalità, da quell'eleganza straordinaria. Marcos, presidente delle Filippine e sua moglie Imelda che mi invitò a ballare, alta ben più di me, mi vergognavo da matti. Gianni Agnelli.
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Una volta lo incontrai circondato da amici e amiche, compresa una mia fidanzatina. Ma come, avvocato, mi ruba le ragazze? Saragat e Ciampi, presidenti della Repubblica che mi hanno nominato cavaliere e commendatore».
Un momento di nostalgia. Dove torna?
«Darei anche le mutande pur di tornare a fare quello che ho fatto. Anche per un giorno. Intensità assoluta. Nulla di comparabile».
La MotoGp ha perso Rossi, manca Marquez. È crisi?
«Chi guarda vuole vedere un campione fare cose che non riescono ad altri. Agostini e Fangio ieri, poi Alì o Maradona o Valentino. Stanca Hamilton? Allora perché lo paghiamo 40 milioni l'anno? Serve una star. Unica, speciale. Per ora non c'è».
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Coraggio e incoscienza. Il limite dove sta?
«Vado al Tourist Trophy, guardo le strade, conto i morti e mi chiedo: io correvo in un posto così? Più cresci, più pensi. A un certo punto dissi basta. Ma su quell'isola avevo già vinto dieci volte. Certe riflessioni non comparivano. Spericolatezza e spensieratezza. Aggiungi l'esperienza e vai ancora più forte. Sino a quando la memoria di ciò che hai visto, delle tragedie, fa scattare un freno interiore. La ragione, se sei arrivato sano e salvo sin lì, ti protegge».
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