Giancarlo Dotto per Dagospia
dotto
L’indecenza del “senno di poi” non ha limiti. Dopo averci raccontato che, in viaggio per il Brasile, era un gruppo affiatato, motivato e superallenato, dopo aver titolato e conclamato alla vigilia del morso fatale (quello di Godin, non quello di Suarez) che solo una cosa a quel punto contava, tenere le chiappe a Copacabana il più possibile, gettare il polmone stremato oltre l’ostacolo, il punticino con l’Uruguay, non importa come, i trombettieri della patria ci hanno svelato che eravamo, in realtà, un’accozzaglia tapina di uomini tiepidi, annoiati e divisi, che non stavano in piedi. Meno di noi correvano solo le anziane signore a mollo nell’oceano.
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A seguire, i baccanali dei retroscena, l’orgia delle indiscrezioni. Giorni e giorni, a frugare la carcassa del morto, alias amabili resti della Nazionale. Pensieri latenti, rancori, baruffe e divisioni. Prima, durante e dopo. E Balotelli ovunque. Balotelli che litiga, Balotelli che piange, Balotelli che fa a pugni con Bonucci, no, anzi con De Rossi, Balotelli che se ne sta solo con Fanny, Balotelli che tiene il muso, Balotelli negro, Balotelli stronzo, Balotelli disperato, Balotelli che chiede scusa, Balotelli che respira. Balotelli, il morbo che cammina.
prandelli con la chitarra BUFFON PRANDELLI MONDIALI 2014
Un’intera nazione, Mino Raiola a parte, sequestrata da quello che sembra un calciatore, ma è in realtà un virus mediatico. Siamo posseduti da Balotelli. Portateci tutti dall’esorcista. Lui in testa, poveraccio, Balotelli. Il primo a credere d’essere Balotelli. L’anagramma di “Altobelli”. E, invece, bastava aggiungere il nome. “Il Rambo iellato”. L’anagramma di Mario Balotelli.
Bastava il senno di prima. Che, però, è uccellaccio, non fa ascolti e numeri. Questa non era più da un pezzo la Nazionale di Cesare Prandelli. Capitolo chiave, il codice etico. Su questa demagogia da sacrestia, l’ex cittì si è giocato e perso tutta la sua credibilità. Quel minimo che restava, se n’è andato con le scelte discutibili alla partenza per il Brasile.
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Su tutte, la convocazione di Antonio Cassano, una sciagura, e la rinuncia a Giuseppe Rossi, la speranza. I totem della Nazionale, Buffon, Pirlo e De Rossi, hanno sempre più mal sopportato il codice prandelliano. L’avevano accettato all’inizio, ma sempre più scettici sulle sue applicazioni. Incorporata la suggestione di un mister tutto d’un pezzo, leale e passionale, al di sopra della mischia, avevano via via scoperto un uomo ondivago, tremulo e insicuro.
prandelli balotelli a casa
Daniele De Rossi, in particolare, deve aver fatto un esercizio eroico di ascetismo zen per ingoiare l’urlo e lo schifo che gli salivano dentro, tutte le volte in cui l’Allenatore Etico, dopo aver più volte abiurato il romanista per condotta non etica, glissava sui Balotelli, sui Cassano e sui Chiellini.
I venti giorni di Mangaratiba hanno definitivamente rimpicciolito, agli occhi dei suoi giocatori, la figurina già malandata di Prandelli. Ondivago nella tattica, oltre che nell’etica. Dopo essersi manifestato come il profeta del nuovo corso, l’Italia che privilegia il gioco al risultato, si rifugiava in moduli e bunker d’altri tempi. Dovute le dimissioni, patetico lo sfogo a latere. “Non rubo lo stipendio”.
renzi e prandelli con la banana
A difenderlo è rimasto solo Arrigo Sacchi (l’astuto Demetrio Albertini, compare di sacrestia di Prandelli, si è già riposizionato nel davanzale con vista “presidenza federale”). L’allucinato guru di Fusignano è la vera peste occulta del calcio italiano. Dietro le quinte del cariatissimo palazzo federale, ma in prima linea nelle scelte di fondo.
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L’aver vinto non tutto quello che doveva e poteva con il club più forte di ogni tempo, il Milan di allora, gli ha conferito un alone di santità, inspiegabilmente illeso negli anni, nonostante i fallimenti successivi da allenatore e dirigente, le farfuglianti esibizioni da opinionista e i diktat da fustigatore inflessibile, come duce del nostro calcio giovanile. Sempre più ammorbato dall’etica e dalla tattica. Sempre più povero di tecnica.
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E ora? Il nome di Max Allegri è malinconia pura. Il pallone italiano ha bisogno di un leader forte e carismatico, non ideologicamente zavorrato. Uno come Guidolin, carismatico non di suo ma per la storia che lo precede. Mancini, l’alternativa, carismatico di suo e per la storia che, forse, lo seguirà. Ci stiamo consegnando, invece, all’uomo che passerà alla storia per aver consegnato Pirlo alla Juventus tre anni fa, con la scusa che era al capolinea. Uno che di carismatico ha solo il volto. Purché non parli e non rida.