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    BOCCA, IL MIO MIGLIOR NEMICO – FELTRI: "RIMASE FASCISTA PER TUTTA LA VITA. ERA MANGANELLATORE PERSINO DA GIORNALISTA: MENAVA CON LA PROSA - FU IL PRIMO A CAPIRE CHE LA LEGA SAREBBE STATA IMPORTANTE. ECCELLEVA NELL'ANALISI POLITICA, A DIFFERENZA SIA DI MONTANELLI, CHE ERA SUPERFICIALE, SIA DI ENZO BIAGI, CHE NON CI CAPIVA UN GRANCHÉ. POCO PRIMA DI MORIRE, DISSE: ììDI FELTRI NON VOGLIO PARLARE, NE HO PAURA FISICA” – STELLA: "DALLE BR ALLA LEGA, SAPEVA CAMBIARE IDEA"


     
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    VITTORIO FELTRI per Libero Quotidiano

     

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    Giorgio Bocca era un mio vicino di casa. Abitavamo sulla stessa strada, ossia in via Giovannino De Grassi, in zona Magenta, a Milano. Lo incontravo quasi tutte le mattine, uscendo per andare al giornale. E non mancavamo mai di fermarci per salutarci e fare quattro chiacchiere. Si parlava di tutto, soprattutto di politica. La passione allora era fervente.

     

    VITTORIO FELTRI VITTORIO FELTRI

    Erano i primi anni Novanta. Avevo conosciuto lo scrittore proprio in quel periodo, nella sua dimora, in occasione di un'intervista allo stesso che mi fu commissionata da una rivista mensile con la quale collaboravo nei medesimi anni in cui dirigevo l'Indipendente, ossia Prima Comunicazione. Nonostante io non gradisca dedicarmi alle interviste, che mi annoiano particolarmente, il pezzo riuscì abbastanza bene.

     

    Del resto, Bocca era un personaggio con un certo fascino ed ascoltarlo risultava stimolante. Quel dì inaugurammo un rapporto di conoscenza non superficiale. Giorgio era piccolo di statura e nerboruto. Possedeva un carattere di ferro, tuttavia si distingueva per i modi cordiali e gentili. La sua dote era la lungimiranza.

     

    vittorio feltri da giovane vittorio feltri da giovane

    Come tutti i veri grandi uomini, aveva la capacità di vedere più avanti degli altri. Fu il primo a capire che la Lega sarebbe stata un movimento importante. Inoltre il giornalista era particolarmente dotato per la saggistica politica. L'indole scontrosa gli rendeva difficile il rapporto con gli altri. Del resto, chi possiede personalità di solito ce l'ha pessima. Lo leggevo volentieri e mi scoprivo sempre concorde. Di Bocca apprezzavo soprattutto la prosa non raffinata. La sua scrittura era torrentizia, potente, coinvolgente, straripante, ti travolgeva come un fiume in piena. Affogarvi era un piacere.

     

    Giorgio riusciva a cogliere molto bene le situazioni e a rappresentarle in tutta onestà, eccellendo per questo nell'analisi politica, a differenza sia di Indro Montanelli, il quale era più superficiale ed irridente, sia di Enzo Biagi, che non ci capiva un granché di politica ed era una sorta di orecchiante.

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    Mentre gli altri cronisti non avevano capito ancora nulla, Bocca aveva già capito tutto, in particolare davanti al fenomeno Lega. Egli era il saggista politico per antonomasia: fotografava la realtà e sapeva interpretarla. Memorabili le sciabolate di Montanelli nonché la classe della sua prosa, indimenticabile lo spirito spumeggiante di Biagi. Bocca, invece, si distingueva e restava inciso perché era duro e crudo. Senza orpelli inutili.

     

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    IL SUO PASSATO Bisogna ricordare però anche il suo passato. Bocca era stato un ufficiale fascista e aveva compiuto atti di guerra che prevedevano persino la fucilazione del nemico, cosa che non esitò a fare. Sì, era fascista, è cosa nota, poi divenne partigiano. Dopotutto cambiare idea è ammesso, può succedere alle persone davvero intelligenti. Tuttavia, questa transumanza da uno schieramento all'altro seccava più di tutti Bocca stesso.

     

     

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    Non sopportava che venisse rivangato il suo passato, che viveva come un marchio ignominioso. Non si accorgeva però che era rimasto fascista, e lo rimase per tutta la sua esistenza. Bocca era fascista nel temperamento, quantunque non più nei principi. Era fascista anche nel mentre vestiva e parlava da partigiano. Andò avanti con la teoria del manganello ed era un manganellatore persino da giornalista: menava con la sua prosa.

     

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    Ad un certo punto, Giorgio si stancò della Lega e si schierò ancora e sempre a sinistra. La sua bandiera era un furioso antiberlusconismo, che lo avvicinava ai suoi amici: Montanelli e Biagi. Il trio si ritrovava di frequente, anche perché gestiva il premio "È Giornalismo", fondato nel 1995 dai tre giornalisti e dal mio caro amico Giancarlo Aneri, che hanno consegnato la vincita di oltre 15 mila euro sempre e solo a penne di sinistra. Con le mie direzioni negli anni Novanta ottenni risultati soddisfacenti nel mondo della carta stampata. Bocca non mancò di rendermene atto e merito in un articolo per La Repubblica. Giorgio sosteneva che di me se ne potessero dire di tutti i colori meno che non sapessi fare il direttore.

     

    Fu l'unico a riconoscerlo pubblicamente. Agli altri doleva troppo il fegato per poterlo fare. Tale ammissione mi fece alquanto piacere, cioè l'apprezzai. In fondo, non si era mica trattato di un gesto di generosità, bensì di obiettività, la quale non vale meno della prima, in particolare di questi tempi. Quello stesso anno sorse il problema: a chi assegnare il prestigioso e lauto premio? Giancarlo con un atto di coraggio propose il mio nome. Montanelli non fece i salti di gioia per l'entusiasmo, eppure non si oppose, dato che aveva quel freddo e sano cinismo di cui deve essere dotato un bravo giornalista.

     

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    Anche Biagi non si oppose, ma non per le stesse ragioni. Enzo era uno che si adattava alle situazioni, camaleontico, furbo. Il nocciolo duro fu Bocca, il quale affermò con la sua solita obiettività: «Sì, è proprio vero: il premio lo meriterebbe Vittorio Feltri». E poi aggiunse furioso: «Ma è fascista!». Risi a crepapelle quando questo fatto mi fu raccontato da Aneri. E ancora oggi mi viene da ridere. Non sono mai stato fascista.

     

    Ovviamente fui escluso. Feci un pezzo su Il Giornale scrivendo di codesto riconoscimento che si scambiavano i giornalisti di sinistra. Lo chiamai sarcasticamente "Premio Stalin". Se me lo avessero dato allora, lo avrei accettato con gioia; oggi, invece, dopo che lo hanno preso cani e porci, non lo accoglierei. Ovviamente con una punta di dispiacere dato che al vincitore vanno 15 mila euro.

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    LA MIA MILITANZA Poco prima di morire, Giorgio rilasciò un'intervista, nella quale, affaticato eppure sempre livoroso, rispondendo ad una domanda dell'intervistatore che gli chiedeva un'opinione su di me, disse: «Di Feltri non voglio parlare in quanto ne ho paura fisica». Insomma, come se io fossi uno che picchia. Restai perplesso. Anche perché ho sempre avuto rispetto, stima e considerazione di Bocca, nonostante la sua vita non omogenea. Mi accusava di essere fascista, eppure, a differenza sua, fin da giovane ero iscritto al Partito Socialista, già dai 17 anni, tanto da diventarne segretario della Federazione giovanile bergamasca. Questa mia militanza mi costò addirittura la non ammissione all'Arma dei carabinieri.

     

    Desideravo farne parte perché mi piacevano i cavalli ed i carabinieri avevano eccellenti strutture equine, per questo feci il concorso, che vinsi. Tuttavia, poi fui respinto. Restai avvilito. Fui convocato presso la caserma di Bergamo, dove senza troppi giri di parole mi comunicarono che avevo sì passato il concorso, ma che l'Arma non avrebbe potuto accettarmi per motivazioni che i carabinieri non erano tenuti a spiegarmi.

     

    montanelli intervistato da enzo biagi montanelli intervistato da enzo biagi

    Non seppi mai la ragione per la quale ero stato rifiutato, finché, parecchi anni dopo, diventato ormai giornalista, strinsi amicizia con un ufficiale importante, al quale una sera a cena raccontai questa triste vicenda senza nascondergli il fatto che il non conoscere il motivo che determinò la mia esclusione ancora mi pesava. Il comandante approfondì la questione dando un'occhiata al mio fascicolo che ancora giaceva negli archivi.

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    E fu così che venni a conoscenza della verità: ero stato respinto in quanto iscritto al PSI, che era considerato alla stregua delle Brigate rosse. Insomma, Bocca non voleva darmi il premio poiché mi dava del fascista ed i carabinieri non mi volevano perché socialista. Essere ritenuto fascista proprio da Bocca era troppo.

     

    Sono stato tutto nella vita meno che fascista. E l'unico motivo per cui non sono antifascista ora è perché non c'è il fascismo. Sono sempre stato invitato alla consegna dell'onorificenza "È Giornalismo" e non ho mai nutrito invidia nei confronti dei miei colleghi che ne sono stati insigniti. Mi tocca ammettere che, se una volta questo genere di situazioni mi dava un pizzico di dolore, oggi ritengo che non ricevere codesti riconoscimenti vuol dire soltanto che non faccio parte del club dei fighetti. Nei gruppi e nelle categorie ci sto stretto.

     

    È un merito esserne esclusi. Al diavolo i premi. Io amo il mio giornale spettinato. Quando Bocca morì feci un pezzo in cui mi dichiarai sinceramente dispiaciuto: era morto il mio miglior nemico.

     

    GIAN ANTONIO STELLA GIAN ANTONIO STELLA

    GIORGIO BOCCA SAPEVA CAMBIARE IDEA

    Gian Antonio Stella per il “Corriere della Sera”

     

    «Dormo in una stanza del Dugento, pranzo in un salone del Dugentocinquanta, cammino su un selciato, nuovo nuovo, del Trecento e mi informo sui fiorini d'oro incassati dalla Salimbeni e figli, commerciando sete lungo la via Francigena e raccogliendo le decime per conto di Onorio IV. È colpa mia se qui, il miracolo economico è avvenuto sette secoli or sono?».

     

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    Cento anni dopo la sua nascita a Cuneo il 28 agosto 1920, non si può ricordare Giorgio Bocca senza partire da uno dei suoi incipit. Straordinari. Figlio di due insegnanti, tirato su dalla scuola fascista (tipico temino alle elementari: «Il Maestro ci ha spiegato che gli italiani, siccome sono i più richiamati dalla Santa Provvidenza, hanno tredici comandamenti. I primi dieci della tavola di Mosè e poi c'è Credere, Obbedire, Combattere»),

     

    campioncino di sci col culto del Monviso («un totem dominante»), premiato dal Duce per una vittoria nella staffetta ai Littoriali del Guf («Arrivò nel salone di palazzo Venezia con un'ora di ritardo, passò rapido fra noi inneggianti, guardandoci a muso duro e un po' sdegnoso, e lasciò ad altri il compito di distribuire i distintivi»), allievo ufficiale degli alpini, giovanotto invasato tanto da scrivere a 22 anni su «La Provincia Grande» un paio di articoli sulla razza («Questo odio degli ebrei contro il fascismo è la causa prima della guerra») e sui Protocolli dei savi di Sion che gli sarebbero stati rinfacciati a vita, messo in crisi dalla guerra e dallo sfascio dell'8 settembre, quando decise di unirsi ai partigiani passò per casa e la mamma, che non capiva, gli corse dietro «sulle scale con una maglia di lana e ripeteva: "Mi raccomando, non far tardi stasera". Mi avrebbe rivisto dopo venti mesi».

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    Non bastò una vita intera di reportage e inchieste e denunce sul «Giorno», «L'Europeo» e «la Repubblica» contro i mafiosi (memorabile l'ultima intervista a Carlo Alberto Dalla Chiesa sulla sua solitudine), i neofascisti, i mazzettari, i camorristi, i servizi deviati, i padreterni della cattiva politica, i razzisti, i palazzinari, i razziatori dell'economia («Il crollo del comunismo si è dimostrato una fregatura: quel modello opposto almeno obbligava anche il capitalismo a stabilire regole e un ordine di valori. Adesso invece contano solo i soldi») per risparmiargli attacchi e reprimende su quegli sventurati esordi.

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    Ancor meno certe sortite successive tipo la convinzione che le Brigate Rosse fossero manovrate dai neri («Bisogna ammettere che abbiamo preso una bella cantonata», confesserà) o il provocatorio «Grazie barbari» rivolto ai leghisti (votati) per avere scardinato un sistema che aveva «fatto il suo indecoroso tempo».

     

    Commise degli errori? Sì. Cambiava idea? Sì. Cocciuto sulle vecchie come sulle nuove opinioni? Sì. Era però un uomo libero. Capace di essere scomodo anche con sé stesso. Un fuoriclasse assoluto. Al punto da guadagnarsi alla morte, tra grandinate di critiche, l'onore delle armi d'un arcinemico come Giuliano Ferrara: «La sua lingua letteraria scoppiava di umanità provinciale, balzacchiana se ce n'era una...». E chi li ha più visti, certi incipit?

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    Sul boom a Vigevano: «Fare soldi, per fare soldi, per fare soldi: se esistono altre prospettive, chiedo scusa, non le ho viste». Su un re della medicina: «Inseguo il professor Achille Mario Dogliotti per cliniche, ospedali, aule universitarie: oscuro e importuno scriba, nella scia di un sovrano...». Sui Marzotto: «Barba e baffoni per il bisnonno fondatore, soltanto baffoni per l'onorevole nonno, appena baffettini a spazzola per il beneamato genitore e guance lisce, menti d'alabastro, sottonasi rasati per i figli...». Chapeau.

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