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    GIÙ LA TESTA, MILANO. DA DOMANI MENO SPOCCHIA - DOPO ANNI DI PRIMATI E TRIONFALISMI, GRATTACIELI E SALONI DA RECORD LA CITTÀ HA PRESO UNA SONORA SBERLA DALL’EPIDEMIA - L'ASSESSORE ALLA CULTURA, FILIPPO DEL CORNO: “IL COVID CI HA RESI CONSAPEVOLI DEI LIMITI DELLO SVILUPPO DEGLI ANNI DIECI. LA CITTÀ DINAMICA ERA TALVOLTA FRENETICA. E LA SUA ATTRATTIVA GLOBALE UNA NARRAZIONE PATINATA, QUINDI FRAGILE. BISOGNA RISCOPRIRE UNA CULTURA DIFFUSA. E CON LE ALTRE CITTÀ PASSARE DALLA COMPETIZIONE ALLA COLLABORAZIONE”


     
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    Alberto Mattioli per “la Stampa”

     

    milano primo weekend di riaperture milano primo weekend di riaperture

    Le metafore variano: una sberla, una mazzata, una débâcle. Però è certo che a Milano la pandemia ha colpito forte, forse più che altrove. La città si è trovata stretta fra i due peggiori focolai italiani, le provincie di Lodi e Bergamo, e le prove non esaltanti della sanità lombarda. E dopo anni di primati e trionfalismi, grattacieli e Saloni da record, insomma dopo un decennio in cui correva mentre il Paese arrancava, si scopre fragile. Con l'aggravante di non risultare nemmeno troppo simpatica.

     

    La Schadenfreude del resto d'Italia - il piacere provocato dalla sfortuna altrui - si nota fin troppo: per una volta, il primo della classe indossa il cappello da asino. È una battuta d'arresto o l'arresto definitivo delle smisurate ambizioni cittadine? Prevale quello che l'antica saggezza democristiana definiva «cauto ottimismo». In fondo al tunnel si inizia a vedere la luce. Ma il tunnel è ancora lungo. Il commercio ha sofferto moltissimo. Secondo la Confcommercio, il 64% degli esercizi ha riaperto e il 21 non ha mai chiuso. Resta un 15% di serrande ancora abbassate.

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    La situazione varia da settore a settore: l'alimentare accusa un calo del fatturato del 20%, il non alimentare del 60, bar e ristoranti del 70, gli alberghi del 90. Per il turismo è Waterloo. Molti hotel non hanno ancora riaperto, fiere, saloni e congressi sono stati tutti cancellati e in maggio il calo era del 98% sul 2019.

     

    IL CASO SMART WORKING

    E tuttavia, turismo a parte, qualche segnale di ripresa si vede. Nelle previsioni di Marco Barbieri, segretario generale di Confcommercio, ci sono molti "se": «Se non ci sarà una seconda ondata della pandemia, se il turismo ripartirà, se gli uffici riapriranno, e se tutto questo succederà da settembre, torneremo ai livelli del '19 nel maggio '21».

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    Appunto: se. Per inciso, Beppe Sala avrà sbagliato il tono, un po' troppo da milanese imbruttito, quando ha detto che bisogna farla finita con lo smart working e tornare a "lavurà" in ufficio. «Però ha ragione - chiosa Barbieri - perché se la gente non va in ufficio tutto l'indotto soffre». Nel frattempo, Milano «fa un bagno di umiltà», come dice l'assessore alla Cultura, Filippo Del Corno. «Il Covid ci ha resi consapevoli dei limiti dello sviluppo degli Anni Dieci. La città dinamica era talvolta frenetica. E la sua attrattiva globale una narrazione patinata, quindi fragile. Abbiamo chiamato il piano di ripresa "Un passo alla volta", ed è una novità in una città che ne faceva tre. Attenzione: non era sbagliato quel modello. Era sbagliato pensare che fosse l'unico possibile. Pensiamo ai grandi eventi, le settimane, i saloni: benissimo, ma bisogna riscoprire anche una cultura diffusa. E con le altre città passare dalla competizione alla collaborazione».

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    Guarda caso, il cartellone per l'estate si chiama "Aria di cultura": per una volta, uno slogan cittadino è scritto in italiano e non in inglese. Le ciclabili approntate in fretta e furia perché nessuno voleva più prendere i mezzi (talvolta così in fretta da provocare ingorghi e polemiche) diventeranno strategiche, simbolo di una città che si ripensa più verde e più lenta, più a misura d'uomo e meno di fatturato. Resta il problema di recuperare i "dané" perduti.

     

    Un indizio infallibile dello stato di salute economica è il mercato della casa, che poi nella Milano pre-Covid andava così bene da trasformarla nella Disneyland degli agenti immobiliari. E qui, sorpresa: il business è ferito ma vivo. «Prevedevamo per il 2020 un aumento del 7%, poi abbiamo rivisto la percentuale a meno 20 - spiega Alessandro Ghisolfi del Centro studi di Abitare Co -. Due segnali inducono però all'ottimismo. Primo: si è tornato a rogitare, insomma chi era interessato prima della fase 1 nella fase 3 ha poi comprato.

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    Secondo: dopo la clausura, i milanesi chiedono appartamenti magari meno centrali ma più grandi e con il terrazzo». La Scala riapre il 6 luglio In questa altalena di speranze e paure, c'è anche chi dalla crisi non esce. Come Pier Galli, titolare dello storico ristorante "Galleria", lì dal 1968. Ha chiuso il 7 marzo, dopo che il fatturato era calato del 95%. E, insieme ad altri locali storici della Galleria, come Marchesi o Biffi, ha scritto al Comune che, se tutto va bene, non riaprirà prima di settembre. «Io vivevo di turisti, che sono spariti.

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    A pranzo avevo i bancari, che sono in smart working, e a cena gli spettatori della Scala, che è chiusa. Con 33 dipendenti e quasi mezzo milione di affitto all'anno al Comune, alzare la serranda mi costa 8 mila euro al giorno. Se, come negli ultimi giorni, ne incasso meno di mille, tanto vale restare chiuso». La Scala però riaprirà, il 6 luglio. Niente opera, per ora, ma concerti da camera per seicento persone, circa un terzo della capienza. Un altro sintomo di guarigione. E poi, recita un detto milanese, piuttosto che niente è meglio piuttosto. (2. Continua )

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