Estratto dell'articolo di Stefano Lorenzetto per Il Corriere della Sera
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Umberto Bossi non era ancora nato quando Giuseppe Antonio Farina in famiglia fu chiamato Giussano, «nulla a che vedere con l’Alberto della leggenda». Di qui il vezzeggiativo Giussy, l’unico nome che gli è rimasto attaccato. Per il proverbio veneto secondo cui «de 7 anni i xe butei, de 70 ancora quei», l’ex contadino del calcio vive in una comunità del Veronese, fondata da una carismatica, dove gli gironzolano intorno bimbi di 3. Lui ne compirà 90 il 25 luglio. «Non capisco perché devo pagare 2.000 euro mensili di retta. Questa casa è mia, ci sono cresciuti i miei primi sei figli». Si è dimenticato d’averla venduta alla Onlus in illo tempore. Ogni volta che il primogenito Francesco glielo ricorda, s’inviperisce: «Impossibile! Nella mia vita ho sempre e solo comprato».
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Quante squadre ha avuto?
«Ma è Rischiatutto? Fammi pensare... Milan, Padova, Vicenza, Audace, Valdagno, Legnago, Schio, Rovigo, Belluno, Rovereto, Modena, Palù».
Accipicchia. Sono 12.
«Volevo comprare anche il Venezia. E il Verona, ma arrivò prima il conte Pietro Arvedi d’Emilei. In 35 anni di calcio almeno uno scudetto me lo sarei meritato, o no?».
A Palù è sindaco il suo Francesco, al secondo mandato.
«Il nome viene da palude. Fu bonificato dai carcerati di Verona. Io lo riportai sott’acqua: 500 ettari coltivati a riso. Ci allevavo 30.000 germani reali l’anno. Vedi quel casotto in mezzo ai campi? Prima lì era un lago. Mi ci appostavo di notte con la stufetta e all’alba ero pronto per la caccia».
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Ne ha avute di fiamme.
«Non ero un cornificatore seriale. Se capitava... Fino ai 40 anni non ho corteggiato nessuna, semmai venivo corteggiato. Tutti a consigliarmi: “Compra il Milan, vedrai quante donne cadranno ai tuoi piedi”. Manco una».
Non si butti troppo giù.
«Gabriella Casini, vedova di un consigliere del Vicenza, si faceva consolare da mia moglie nella nostra tenuta in Toscana. Finì che mi diede una figlia, Marisol. Poi ci fu l’australiana Dunja Adcock, 40 anni meno di me. Mi lasciò per una crisi mistica. Nel 2008 sposai Luciana Gaspari, avvocata. È morta nel 2012».
Si era partiti dalle tenute.
«Mille ettari a Port Elizabeth. Mi manca il Sudafrica. Gente sana, bianchi e neri. Anche 13.000 ettari in Namibia. Qualcosa in Spagna».
Tutto perduto per i debiti del Milan: 13 miliardi di lire.
«Andai da Silvio Berlusconi ad Arcore. Prendilo tu, gli dissi. “T’invidio quella bella testa di capelli neri”, mi rispose. Fui arrestato per un reato, il falso in bilancio, che oggi non esiste nemmeno più. Il mio avvocato s’era accordato con il pm Ilio Poppa perché mi rilasciasse subito. Invece mi tennero in cella 48 ore. Cominciai lo sciopero della fame. I g’ha ciapà paura. Il lunedì, prima di liberarmi, mi portarono in mensa: g’ho fato ’na magnàda che ancora ce l’ho in mente. “Se non passi tre giorni in galera, in Italia non sei nessuno”, commentò mia sorella. Aveva ragione».
silvio berlusconi coppe campioni
Odia ancora Berlusconi?
«Continuavo a chiedere: ma è morto? Ora che se n’è andato, quasi mi dispiace».
Litigò con Gianni Agnelli.
«Mi convocò a Torino: “Voglio Paolo Rossi”. Glielo ridò fra un anno, replicai. “No, adesso”. Andammo alle buste. Io lo valutai 2,4 miliardi di lire, l’Avvocato 900 milioni. Quello stesso anno il Vicenza fu retrocesso in serie B. Capito come funziona il calcio?».
Rossi infine tornò alla Juve.
«Agnelli mi diede anche 1 miliardo in nero. Non rammento come lo spesi, giuro».
Lei era elastico con i soldi.
«Nella mia tenuta di Palù un giorno arriva Antonio Marzorati, consigliere del Milan. Veniva a riscuotere 1 miliardo di lire che mi aveva prestato. Alla fine mi offrì il pranzo e mi strinse la mano: “Dobbiamo comprare una squadra insieme”. Quella somma non gliel’ho mai restituita».
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Al Milan come ci arrivò?
«Nel 1982 ero a tavola con amici al Principe di Savoia. Entrò Felice Colombo, presidente rossonero: “Basta, sono stufo della squadra. Se trovo qualcuno che mi dà 3 miliardi, gliela tiro dietro”. Avevo accanto Carlo Bonfante, ragioniere in pensione di Isola della Scala, il mio contabile di fiducia, più fedele di una moglie. Gli dissi: ragioniere, scriva. “Come da proposta in presenza di testimoni, accetto l’acquisto del Milan per 3 miliardi di lire”. E feci spedire una raccomandata».
Dal Cavaliere ne voleva 20.
«Berlusconi me ne offriva 15. Mi chiamò Giampiero Armani, azionista della squadra rossonera: “La compro io per 20”. L’indomani il petroliere piacentino ricevette una telefonata da Bettino Craxi: “Quell’affare non è per te”. E così non si presentò dal notaio. Invece arrivò la Finanza. Tutti i beni che avevo dato in garanzia, inclusa la casa di Verona della mia prima moglie, mi vennero portati via».
Chi fu il miglior calciatore?
«Franco Baresi. Dava tutto sé stesso. Parlare con lui era parlare con un uomo».
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Credevo Gianni Rivera.
«Mentre a Milano attraversavamo la strada con Nereo Rocco, stava per finire sotto il tram. “Ti xe propio un mona!”, lo sgridò El Parón».
Il più grande allenatore?
«Héctor Puricelli. È stato come un padre, per me».
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Se lei fosse il Padreterno...
«Io sono il Padreterno!».
Mi lasci finire. Se lo fosse, nel giudizio finale quale peccato non si perdonerebbe?
«Non si può scrivere. Comunque, lasciami il tuo indirizzo. La prossima volta verrò io a intervistare te».
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