Marco Giusti per Dagospia
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Costruito sulle grandi canzoni napoletane di sempre, si inizia con “Indifferentemente”, ma si va avanti davvero con tutto, e l’effetto è che come se avessimo, come colonna sonora, venti pezzi dei Rolling Stones, ma anche su una serie di battute magistrali riprese da un testo sacro come “Miseria e nobiltà”, reso popolare dal Felice Sciocciammocca di Totò e sul ruolo fondamentale del bambino Peppiniello (“Vincenzo m’è padre a me!”), “Qui rido io”, terzo film italiano in concorso, ultima opera di Mario Martone, che lo ha scritto assieme a Ippolita di Majo, non è fortunatamente un biopic sulla vita complessa di Eduardo Scarpetta, padre mai riconosciuto dei tre fratelli De Filippo, quanto la ricostruzione precisa del mondo di Scarpetta e della sua famiglia “difficile” e della scena teatrale e culturale napoletana di inizio ’900.
Un momento però, che vede Scarpetta passare da dominatore assoluto a teatro, dopo aver sconfitto con la maschera di Felice Scioccammocca quella del Pulcinella dei Petito, a comico antiquato che non vede la modernità del realismo napoletano portato sulle scene, la “Assunta Spina” di Salvatore Di Giacomo.
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“Popolare non vuol dire comico”, dicono i giovani contestatori del dominio scarpettiano, un elenco che da Libero Bovio a Ernesto Murolo a Federico Russo a Di Giacomo. E, sappiamo dalla storia, che proprio suo figlio Eduardo, assieme ai fratelli Titina e Peppino, dopo la sua morte, sapranno fondere a teatro la commedia scarpettiana con il realismo napoletano. Il film, però, si ferma prima, non mostrandoci il declino inevitabile di Scarpetta, arriva fino all’incredibile scena del processo intentato dalla Società degli Autori per plagio a Scarpetta, reo di aver costruito la sua farsa “Il figlio di Jorio” non come una parodia, ma come un vero e proprio furto del dramma di Gabriele D’Annunzio “La figlia di Jorio”.
Toni Servillo Qui rido io
Martone, ovviamente, gioca in casa, può contare su una serie di attori magistrali, ovviamente Toni Servillo come Don Eduardo, Maria Nazionale come sua moglie Rosa, Cristiana Dell’Anna come la madre dei De Filippo, Luisa, nonché nipote di Rosa. Ma ci sono meravigliose apparizioni di Gianfelice Imparato come Gennaro Pantalena, secondo attore della compagnia, Gigio Morra e Nello Mascia come giudici, Benedetto Casillo come padre di Luisa, per non parlare della presenza di attori fedelissimi del cinema e del teatro martoniano, Iaia Forte, Lino Musella, Roberto Di Francesco, Chiara Baffi, Francesco Di Leva.
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L’unico non napoletano è il curioso D’Annunzio di Paolo Pierobon, che ne fa un simil Sgarbi un po’ cialtrone. Inutile dire che la ricostruzione delle commedie e della vita teatrale di inizio secolo è perfetta, inoltre Martone e di Majo hanno la bellissima trovata di costruire tutta la prima parte del film proprio sulla commistione fra teatro e famiglia, come se facessero parte della stessa situazione, al punto che Scarpetta-Sciocciammocca può giocare coi propri figli riconosciuti e non riconosciuti su più piani.
Tutti hanno un ruolo preciso, meraviglia!, perfino il cuoco Salvatore, che non crede all’invenzione del frigorifero, “Salvato’ ’o munno cagna!”, che fa nascere una battuta tipica del repertorio di Tina Pica, “Non perde un colpo”, detta però da Scarpetta. Perfino Benedetto Casillo che si gioca la gag del “mellone di Cardariello” che mi ha fatto davvero ridere.
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Le cose cambiano quando, dovendo costruire una storia con degli sviluppi narrativi che mandino avanti il racconto, si punta tutto, forse troppo, sullo scontro con i poeti napoletani avversi a Scarpetta che difendono D’Annunzio. “Don Nunzio”, lo chiama Maria Nazionale, bravissima nel suo ruolo di donna forte e cattiva che vuole difendere solo i suoi figli ufficiali a discapito di quelli della nipote, una perfetta Cristiana D’Anna, e delle tante altre che Don Eduardo bazzicò e portò nella sua corte-famiglia.
Insomma, mi sembra che la parte legata alla causa per plagio sia da una parte un po’ antica, chi se li ricorda più “La figlia di Jorio” e “Il figlio di Jorio”, e da un’altra sviluppi un tema, quella della cultura popolare che non vuol dire solamente teatro comico, trattata un po’ didatticamente, vedi la spiega del Benedetto Croce di Lino Musella. Per fortuna la grandiosa scena della famiglia “difficile”, come la chiamava nella sua autobiografia, qui ampliamente saccheggiata, Peppino, e quella altrettanto fenomenale del finale di fronte al giudice, che Don Eduardo legge come un grande palcoscenico teatrale, riportano il film al suo giusto valore.
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Non era facile mettere in piedi un film come questo, e devo dire che Martone era probabilmente l’unico a poterlo mettere in scena con rigore, passione, competenza e, soprattutto, conoscenza. Come è forse l’unico a poter far funzionare un numero così grande di attori napoletani di questo tipo dando a ognuno una sua specificità e coloritura. Ancora una volta, dopo “E’ stata la mano di Dio” di Paolo Sorrentino, Napoli vince. Che ci volete ffà…
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