Venezia – Seberg
Marco Giusti per Dagospia
kristen stewart in seberg
Vabbé. Si capisce fin dalle prime scene che questo Seberg, sorta di biopic della meravigliosa attrice americana Jean Seberg diretto da tal Benedict Andrews e interpretato dalla pur notevole Kristen Stewart, è un disastroso fumettone targato Amazon che ci potevano risparmiare. Qui a Venezia, presentato fuori concorso, più o meno come Chiara Ferragni, serve a richiamare le giovani fan dell’attrice. Che forse somiglia alla vera Seberg, ma non ha nulla del fascino malato, della tristezza così glam dell’eroina di Santa Giovanna di Otto Preminger, che interpretò a 18 anni, di Bonjour tristesse, di Fino all’ultimo respiro di Jean-Luc Godard, di Lilith di Robert Rossen, dove la vediamo assieme a Peter Fonda.
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E non le somiglia nemmeno fisicamente, troppo asessuata la Stewart, senza corpo anche quando è nuda, mentre la Seberg, anche nei suoi film italiani, penso a Questa specie d’amore di Alberto Bevilacqua, che si vantava di una storia con lei, o nel superiore Ondata di calore di Neo Risi o in Camorra di Pasquale Squitieri, riesce comunque a trasmetterci una carica sessuale e un malessere pulsante.
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Certo, difficile scordarla nei film di Claude Chabrol, o nei due film diretti dal marito scrittore Romain Gary, i superbizzarri Gli uccelli vanno a morire in Perù, forse quello che descrive meglio la sua tensione sessuale, e Kill. Film che, assieme a Fine all’ultimo respiro, ne hanno fatto una icona della Nouvelle Vague e del cinema anni ’60. Questo Seberg ci mostra la star in un momento particolare della sua vita quando, moglie di Romain Gary, si sposta in America per girare il musical western di Joshua Logan La ballata della città senza nome con Clint Eastwood e Lee Marvin, e si innamora di un leader delle Black Panther, Hakim Jamal, interpretato da Anthony Mackie, e della sua causa.
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Diventando anche lei, da star hollywoodiana, una rivoluzionaria. E finendo così tra le braccia proco raccomandabili della FBI, che ne segue ogni passo e ogni stravaganza. Perché non si limita certo a una storia con Jamal e entra in un vort ice che la porterà a una triste morte per overdose di barbiturici nel 1979, a 40 anni da poco compiuti. Ambientando il film tra il 1968 e il 1969 in una Hollywood contaminata da hippies, pantere nere, radical chic europei, intellettuali e spioni, è ovvio cercare un paragone con la Sharon Tate descritta da Quentin Tarantino in C’era una volta a Hollywood.
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C’è anche una delle stesse attrici, Margareth Qualley. Ma dove Tarantino detarantinizzava la sua Sharon Tate facendone una sorta di presenza angelica del cinema di allora, qua si cerca di fare di Jean Seberg un personaggio più profondo e complesso. Purtroppo né gli sceneggiatori né il regista né la stessa Kristen Stewart, che si espone in prima persona, riescono a far funzionare fino in fondo questa Jean Seberg, che ci piace solo quando, appena scesa da un aeroplano si avvicina alle Black Panthers e si fa fotografare insieme a loro col pugno chiuso. Con una mossa istintiva-superficiale-sincera alla Asia Argento ai tempi del MeToo. Ma quando la vediamo muoversi nei set storici dei suoi film il tutto appare francamente un po’ ridicolo.
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