Marco Giusti per Dagospia
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Torna in sala, con ben 200 copie, “Lo chiamavano Trinità” di E.B.Clucher alias Enzo Barboni con Bud Spencer e Terence Hill, in copia restaurata, ma anche in riedizione estiva, come si faceva negli anni d’oro del cinema, senza tante piattaforme e senza dvd o blueray. E per anni rivedevamo i nostri film preferiti con John Wayne, Jerry Lewis, Totò. Il pubblico risponderà numeroso? Chissà… Ricordo che a Venezia, quando nella rassegna sugli spaghetti western con Marco Muller riportammo la prima volta il film in sala la proiezione fu affollatissima.
Credo anche che fu la prima e l’ultima volta che venne mostrato in 35 mm. Stavolta, a portarlo in sala, è la Cineteca di Bologna. E bene ha fatto, perché è un film che ha fatto la storia del nostro cinema. Il film comico che salvò lo spaghetti western negli anni ’70, o che forse lo distrusse completamente... Certo, mandò ancora avanti il genere per un bel po’, anche se proprio dalla commedia si inietterà il virus che renderà impossibile la proliferazione di spaghetti seri.
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Per Sergio Leone Trinità “suicida lo spaghetti western mettendoci in mezzo la farsa. Il pubblico reagisce in maniera freudiana, perché il film è la demistificazione dei 300 western che sono stati prodotti dopo il successo di Per un pugno di dollari...”. Anche per Sergio Corbucci è il film “che ha ammollato un colpo mortale al western italiano” perché in questo modo, ridicolizzando tutto il mondo degli spaghetti “non si poteva più ammettere un pistolero che sparasse seriamente”. Per Barboni, però, e penso che avesse ragione, il genere era già morto. Come la si vuol vedere, è comunque storia, e il duo Trinità-Bambino nasce in questo piccolo film prodotto da Italo Zingarelli e Roberto Palaggi e diretto da un maestro della fotografia dello spaghetti serio, Enzo Barboni.
L’idea di Trinità viene a Barboni mentre era operatore di western in Spagna. “Trinità: un vendicatore di torti mite ma coraggioso, sobrio e pigro. Trinità si dà da fare soltanto quando non ne può fare a meno. La mia polemica era contro l’eroe sudato, sporco, la polvere, il cavallo stanco. Il mio eroe è ricco di humour, un dormiglione, guarda con distacco le donne” (Barboni, “Cinema 70”). Per Leone, però, Barboni arrivò al western comico casualmente, senza rendersene conto, non con un vero e proprio ragionamento. Ovviamente Barboni non era assolutamente d’accordo. “Quel film è nato da un momento di rigetto del genere, in quanto io, essendo direttore della fotografia, avendo lavorato con questo o quel regista, avevo notato che facevano tutti a superarsi in ferocia, in sangue, e in squartamenti. Quando stavo facendo con Corbucci Django, che usava persino la mitragliatrice, mettendo in scena stragi a livello di Goradze e cose del genere, ebbi un po’ la nausea di tutto questo…” (a Marcello Garofalo su “Segno Cinema”). Tutti, a cominciare da Franco Nero, che ricorda di aver rifiutato il film, ricordano che Barboni girò a lungo con la sceneggiatura sotto il braccio di questo western comico che nessuno voleva fare.
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Ernesto Gastaldi ha però ricordato a Andrea Pergolari che il soggetto del film e parte della sceneggiatura nascono da un copione che lui aveva scritto (solo fino al primo tempo, però) per il produttore Alfonso Sansone. Il produttore l’aveva poi raccontato a Barboni, che l’aveva usato senza permessi né citazioni pensando che Sansone stesse in fallimento. Per non arrivare alla causa, Zingarelli e Barboni avrebbero permesso a Sansone di fare un film interpretato da Bud Spencer con sceneggiatura di Gastaldi, che sarà appunto il successivo “Si può fare amigo!”.
Lo stesso Barboni ricorda, invece, che voleva fare il film con Peter Martell e Luigi Montefiori, ma i produttori lo rifiutarono, pensando “Qui si parla troppo e si spara poco”. La cosa la ricorda bene anche Montefiori. “Fui io a convincere Manolo Bolognini a non farlo. Mi avevano portato il soggettino scritto da Barboni. Era una cazzata, non c’erano né le battute né le trovate che poi mise nel film. Non c’era niente. Lui, quelle cose, le mise mentre girava. Manolo mi ha rimproverato per anni di avergli fatto rifiutare il film”.
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A questo punto Barboni va dal produttore Italo Zingarelli, che era suo vecchio amico. Ma, come ricorda Sergio Felicioli, direttore di produzione del film, “Zingarelli cercava di evitare come poteva Barboni, perché la sua società, la West Film, non era così florida. Alla fine lo fece leggere a Roberto Palaggi”, che lo coprodusse mettendoci i soldi. E alla fine entrarono anche i due protagonisti. Ma, come ricorda Terence Hill a “Amarcord”, “Il Trinità che Barboni concepì doveva farlo con altri due attori. Poi è successo che Spencer e io dovevamo fare un film col produttore Zingarelli e non si trovava la sceneggiatura adatta. Si presentò Barboni con questo soggetto... io e Spencer eravamo appena usciti da I quattro dell’Ave Maria che era ironico, ma non certo comico. (..) Io stesso non avevo mai fatto ruoli comici e mi sorpresi di come potessi far ridere, Per cui nacque assolutamente per caso”.
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Per Bud Spencer nessuno credeva al film perché allora c’era Leone e non pensavano potesse funzionare il western comico. Poi Zingarelli gli fa leggere il copione di Barboni e Bud pensa a farlo con due protagonisti, due fratelli, lui e Terence Hill al posto di uno solo. Forse è solo leggenda, ma Barboni racconta a Duccio Tessari, nella docuserie “Arrivano i vostri”, che scriveva i copioni in romanesco e poi li faceva tradurre in italiano. Questo particolare svela però l’infondetezza che il film venisse pensato serio e poi diventò casualmente comico. È Nando Poggi a ricordare che Barboni pensava di aver fatto un film serio, tanto che quando si presentò al Supercinema di Roma per la prima un po’ in ritardo se la prese quasi: “Ma che fanno ridono sti fiji de na mignotta?”. Neanche Leone si rendeva conto del perché la gente ridesse al cinema.
La storia vede Trinità, cioè Terence Hill (per la prima volta doppiato da Pino Locchi), che scopre che il fratello, Bambino, cioè Bud Spencer (doppiato come sempre da Glauco Onorato), da ladro di bestiame è diventato addirittura sceriffo di una ridente cittadina.
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Ma proprio Trinità lo aiuterà a risolvere un problemino con il maggiore Harrison, l’ex bello di Senso Farley Granger, losco individuo che vuole cacciare una comunità di mormoni dalle terre che lui stesso vuole possedere. Ci saranno botte e padellate per tutte, due killer pagati per uccidere lo sceriffo e anche una ragazza che fa gli occhi dolci a Trinità. Grandissime le scene di azione. Hanno i loro massimi ruoli western Ezio Marano come il Faina e Steffen Zacharias (con tanto di doppiaggio di Ferruccio Amendola) come Jonathan, capo dei mormoni.
Ma non scherzano neanche il messinese Michele (fratello di Tano) Cimarosa come messicano e come Mezcal il grosso Remo Capitani, riempito di botte da Bud assieme a una banda di cattivi dove brilla il solito barbuto Osiride Peverello (“botte botte botte, sempre botte”). Gran lavoro dei cascatori di Cinecittà, tutti presenti. Gisela Hahn ha ricordato, in un’intervista in Internet, che fece il film chiamata di corsa, prendere o lasciare, per un milione di lire e la domanda: “Tu lo vuoi fa’ un western?”.
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Barboni si diverte con elementi tipici del West, come i travoy. “La cosa che mi divertiva di più di tutti quei vecchi film visti allora erano i cosiddetti travoy, che erano le slitte indiane, dove portavano via le famiglie, i vecchi, le cose… allora credevo che il modo più comodo per attraversare il deserto fosse quello!” (“Segno Cinema”). Col travoy e Terence Hill che ci viaggia pigramente per il West cullati dall’accattivante musica di Micalizzi si apre infatti il film e si definisce per sempre il nuovo genere ideato da Barboni. Completano il quadro botte, fagioli, tempi rilassati e volti forti. Come Farley Granger (“Ha un aplomb che non finisce mai”), Enzo Fiermonte e Pupo De Luca (“Uno si affeziona a quelle facce”).
Il film gioca con la religione in modo abbastanza scanzonato, come spiega il titolo stesso. Fioccano, però battute, ben strane, tipo “Sia lodato Gesù Cristo” e Bud: “Perché?” o “Che il Signore vi accompagni” e loro: “No, andiamo da soli”. Tra le altre battute storiche, quelle sulla mamma dei due, con Hill che si lamenta di uno che “ha detto che nostra madre è una vecchia bagascia...”. “Beh, ha detto la verità”, fa Bud Spencer. “Sì, ma non è vecchia”, conclude il fratello.
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Molto del merito, sosteneva Barboni, spettava a Italo Zingarelli, il produttore. “I momenti erano difficili, il western non andava più, eppure ci ha investito dei bei soldi lasciandomi assolutamente libero di fare quello che volevo.”
Il film costava sui quattrocento milioni, e fa qualcosa come sei-sette miliardi. Viene battuto da Ultimo tango a Parigi, secondo Barboni perché quando uscì il suo film il biglietto costava mille lire, quando uscì Tango 1800. Così lo dice a Alberto Grimaldi: “E poi con quegli elementi che c’hai messo, Brando, il culo di quella, l’insederata, e tutte ’ste cose, per forza dovevi vincere”. Fu un grande successo anche in America. Visto soprattutto negli stati del centro e nella costa Ovest, secondo Barboni.
“Il primo film incassò all’epoca 8 milioni di dollari, lo prese [Joseph E.] Levine proprio per una fumata di pipa e fece un sacco di soldi”. Alla sua uscita inglese ne parla piuttosto bene anche Tom Milne su “Monthly Film Bulletin”, trovandoci perfino “echi lontani di Hawks nella caratterizzazione dei personaggi e nelle situazioni”.
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Gran parte del film venne girato in esterni sull’altopiano di Camposecco, nel Parco dei Monti Simbruini. Da quelle parte, tra Carsoli e Camerata Nuova, sono stati girati molti western. Se ci passate e andate nel bar di Vincenzone trovate parecchie fotografie.
Franco Micalizzi fa furore con una colonna sonora abbastanza inventiva che vede l’intrusione di Lally Stott, già leader dei Motowns. La canzone “Trinity” di Scott-Micalizzi è cantata da Annibale con i Cantori Moderni di Alessandroni.
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