Giuliano Guzzo per “la Verità”
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Ai partiti spaccati al loro interno sui temi dell'economia, della giustizia e più recentemente della pandemia, si è ormai abituati. Ma la politica divisa sulla biologia no, ancora non si era vista. A colmare il vuoto, nelle scorse ore, ci ha però pensato il Regno Unito, dov' è in corso una discussione talmente surreale da far apparire il pur criticato Boris Johnson, da poco salvato dal voto di sfiducia, ma inviso a molti conservatori, come un leader saldamente in sella.
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Il riferimento è al dubbio che, in realtà da settimane, sta animando il partito laburista: le donne hanno il pene oppure no? Non è una battuta: l'amletico dilemma, nell'isola di Sua maestà, è tutt' altro che chiarito. A fine marzo l'Unione ciclistica internazionale ha escluso la ciclista transgender britannica Emily Bridges dai campionati nazionali su pista, riaccendendo così un dibattito in precedenza mai del tutto risolto; e poi c'è il tema dell'accesso agli «spazi sicuri», servizi igienici, spogliatoi e centri di crisi per stupri, alle donne trans.
Tutte questioni su cui, da diversi giorni, i rappresentanti della forza progressista di opposizione erano in attesa di avere dritte da parte del loro capo, sir Keir Starmer, il quale, vista la delicatezza dell'argomento, ha preferito prendere tempo. Questo fino a poche ore fa quando, pressato dalla comunità trans, ha rotto il silenzio dialogando con il conduttore Nick Ferrari sulle frequenze della Lbc, acronimo di Leading Britain's conversation, con una risposta, se possibile, ancora più spiazzante della stessa domanda. Starmer ha infatti affermato che «sì, c'è una minoranza di donne che può avere il pene e che non si identifica nel sesso biologico» anche se, ha subito aggiunto, «il 99,99% di loro considera la questione dal punto di vista biologico e devono sentirsi protette nei luoghi comuni, come bagni e palestre».
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Parole che hanno il sapore di un piccolo capolavoro di cerchiobottismo da cui, tuttavia, emergono almeno due criticità. La prima è che il membro maschile, secondo il leader laburista, non sarebbe più tale, dato che appartiene pure a una non meglio precisata «minoranza» di donne; in seconda battuta, va rilevato che, se «il 99,99%» delle donne davvero considera il tema «dal punto di vista biologico», qualcosa vorrà pure dire, e cioè che il piano della biologia, la stessa che Starmer ha cercato di dribblare coi suoi contorsionismi, di fatto è ineludibile.
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Riesce, dunque, difficile immaginare che, dopo le dichiarazioni del suo leader, nel Labour possa ora regnare la serenità.
Anche perché le divisioni sull'identità femminile sono già forti, perfino tra le fila delle stesse donne. Da una parte, infatti, alcune si riconoscono in Stella Creasy, la parlamentare londinese di Walthamstow che, nei mesi scorsi, ha fatto parlare di sé per aver allattato il suo bambino in aula e che, sul tema, non ha dubbi: «Certo che le donne possono avere il pene». Dall'altra parte, non meno esponenti femminili seguono la linea di un'altra laburista di spicco, ossia Anneliese Dodds, ministro delle Finanze «ombra», la quale dissente apertamente dalla Creasy. «No, non sono d'accordo con Stella», ha infatti dichiarato, precisando: «Per me le donne non possono avere il pene. Certo, ci sono persone che hanno cambiato genere. Ma il genere non è la stessa cosa del sesso biologico».
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Inutile dire, poi, come sull'intero dibattito aleggi un'ombra ingombrante: quella di J.K. Rowling, l'autrice di Harry Potter che dal 2019 ha preso pubblicamente posizione in favore del primato del sesso biologico sul genere, quindi appoggiando in modo netto un'idea ben precisa, che poi è quella prevalente non nel Regno Unito bensì nel mondo: le donne non hanno alcun pene, e vada così. Stretto in una questione che, comunque la si pensi, può essere vista solo in due modi, ciascuno col rischio di ritrovarsi in panni difficili, quello del transfobico o dell'ideologo gender, sir Starmer ha così cercato una sorta di mediazione, quella poc'anzi citata, che però lo trascina comunque in un fossato: quello del ridicolo.
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A sua parziale discolpa, si può solo riconoscere come definire che cosa sia una donna, di questi temi, stia davvero diventando un problema: e non solo inglese.
L'americano Matt Walsh ha da poco girato un documentario di 90 minuti, eloquentemente intitolato «What is a woman?», in cui si aggira fra dipartimenti universitari e reparti di ginecologia ponendo agli studiosi lo stesso quesito che lacera i laburisti britannici. Morale: neppure lui è riuscito a trovare qualcuno in grado di dare una risposta, per quanto elementare se non ovvia fosse la domanda.
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Tutto questo per dire che, se i progressisti del Regno Unito sono oggi impelagati in un dibattito dai riflessi grotteschi, forse non ne hanno tutta la responsabilità. Semplicemente, pagano sulla loro pelle l'esito obbligato di un'ideologia che, a forza di moltiplicare diritti, lascia chiunque la segua nell'impossibilità di eseguire poi un esercizio assai semplice: riconoscere la realtà.
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