Irene Famà per "la Stampa"
BULLO BULLISMO
Un tema in classe sull'uguaglianza. Un compito assegnato per far riflettere gli alunni, per aiutarli a interrogarsi e a comprendere il mondo che li circonda. E loro, studenti di seconda media di un istituto del torinese, hanno colto quell'occasione per confessare il disagio che vivevano da mesi. E per mettere i docenti di fronte alle loro responsabilità: «Non siamo tutti uguali. C'è chi approfitta degli altri».
Chi? I bulli, i prepotenti, quel compagno che per mesi ha preso di mira un ragazzino disabile. Il giorno del tema, il bullo era assente e alcuni degli altri studenti hanno trovato il coraggio di raccontare le umiliazioni e le vessazioni che il loro amico, affetto da encefalomalacia, era costretto a subire.
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Perché quel quattordicenne se la prendeva un po' con tutti, li derideva, alzava le gonne alle bambine, ma era contro il compagno disabile che si accaniva principalmente. Il più debole, l'unico che non poteva difendersi, urlare, respingerlo. E così ogni giorno lo umiliava, lo insultava, sputava sulle sue cose e nel suo bicchiere, gli prendeva le mani, come fosse una marionetta, per fargli fare ciò che voleva. «Nessuno diceva nulla. Avevo paura a parlare, temevo che gli altri non mi avrebbero seguita», ha spiegato agli inquirenti una ragazzina.
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Già. Perché ad affrontare il prepotente quella classe è stata lasciata sola. Eppure qualcuno avrebbe dovuto controllare cosa accadeva quando, durante l'intervallo o l'ora di alternativa, il bullo andava nell'auletta del primo piano a cercare la sua vittima. Così l'insegnante di sostegno e l'insegnante di potenziamento sono finiti davanti a un giudice con l'accusa di concorso in atti persecutori per omesso controllo.
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Il primo ha patteggiato un anno di reclusione, la seconda ha deciso di affrontare il processo. Per il pubblico ministero Mario Bendoni, che ieri ha chiesto una condanna a un anno e 6 mesi, l'insegnante non ha vigilato: «Entrambi i professori erano quasi sempre assenti», hanno testimoniato gli studenti. «E quando c'erano, erano impegnati a guardare il cellulare o il tablet». Poco importava quello che accadeva intorno.
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Intorno era il «regno» del bullo, che tra i coetanei era riuscito a creare un clima di totale soggezione. Nessuno osava opporsi, nessuno si azzardava a criticarlo. Lui non è finito a processo: ora ha diciotto anni, ma all'epoca dei fatti, nel 2015, non aveva ancora 14 anni e non era imputabile. Chiamato a testimoniare, ha chiesto scusa alla mamma della vittima, parte civile rappresentata dall'avvocato Michela Malerba, e ha scritto una lettera: «Ho fatto cose orrende di cui non vado fiero».
Ora tocca agli adulti rispondere del loro operato. O meglio, delle loro omissioni. Spiegare il perché non si sono accorti di nulla, non si sono resi conto che in quella classe c'era un quattordicenne che agiva da padrone e un suo coetaneo che veniva umiliato e deriso. L'avvocato difensore dell'insegnante, Calogero Meli, accusa il «sistema scolastico. La mia assistita - dice - era al primo anno di prova senza formazione sulla gestione dei disabili. Avrebbe dovuto arricchire l'offerta formativa con un progetto sulla legalità, ma stata messa ad affiancare un professore di sostegno. È vittima di una gestione distorta delle risorse umane».
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In pratica, stare accanto a quel ragazzo, proteggerlo, vigilarlo, non era compito suo. Sulle responsabilità penali si pronuncerà il giudice. Il dato di fatto è che in una scuola media, un adolescente con disabilità motorie e cognitive è stato lasciato solo. In balia di un bullo. Ed è stato salvato dai compagni che hanno avuto il coraggio di scrivere su un foglio protocollo quanto stava accadendo.