A.Gr. per “la Repubblica”
Massimo Mucchetti
Basta con le multinazionali del web che fatturano in miliardi e versano al Fisco poche migliaia di euro. E nel rispetto della legge, svuotando le filiali italiane con giri di fatture e incassi offshore. Se il governo accoglierà l’emendamento alla legge di Stabilità del senatore Massimo Mucchetti (Pd), chi vende on line dall’estero beni e servizi in Italia dovrà scegliere tra una web tax al 26% o l’assimilazione alle imprese nostrane. «Soggetti come Google, Amazon e Apple minano i bilanci degli Stati europei e distorcono la concorrenza».
Come evitano il Fisco gli assi del web?
«Sottraggono imponibile fatturando da paradisi fiscali beni e servizi dematerializzati ai clienti europei. La società emittente, basata in Irlanda o Lussemburgo, pagherebbe imposte modestissime. Ma arriva a non pagar nulla perché si carica di royalties da versare a una controllante, anch’essa off-shore, così da pareggiare i ricavi. Questi diritti di sfruttamento di brevetti o marchi sono esentasse se chi incassa finanzia spese in ricerca della casa madre, ovunque nel mondo. È un meccanismo che Google e Amazon ben conoscono».
In cosa consiste il suo emendamento?
«Oggi i colossi web possono dire che non fanno utili in Italia perché non vi hanno una “stabile organizzazione”. Il concetto di stabile organizzazione è il perno dei trattati Ocse contro la doppia imposizione fiscale. Un meccanismo ragionevole, ma nel nostro caso obsoleto perché legato al possesso di fabbriche e uffici quando, nel mondo web, il reddito prende altre forme».
Quindi vanno cambiati i trattati?
«Sì. Ma un conto è varare una commissione di studio, un altro è prendere decisioni incisive come base per negoziare con i governi sostenuti dalla lobby del web. Il Regno Unito ci prova. E noi? Perché non obbligo a banche e gestori di carte di credito, che eseguono pagamenti verso l’estero per beni e servizi dematerializzati, di trattenere un’imposta del 26% ove i beneficiari non dichiarino la stabile organizzazione in Italia?».
amazon logo
Cosa accadrebbe?
«Google, ad esempio, dovrebbe scegliere se subire un prelievo del 26% sui ricavi pubblicitari italiani, stimati 1 miliardo, o se dichiarare la stabile organizzazione, facendo un bilancio vero con i ricavi qui realizzati e la quota di costi consolidati attribuibile. Così come fanno gli editori italiani. In questo modo pagherebbe parecchio meno dei 260 milioni della web tax, ma certo più degli 1,8 milioni concessi nel 2012. Google farebbe causa? Sarebbe suo diritto. Ne ragioneremmo qualche anno e intanto tratteremmo nell’Ocse. E non da soli».