Marinella Venegoni per “la Stampa”
BEATLES Rooftop Concert
«L' idea, in origine, era quella di salire su un transatlantico e andarcene dal mondo: ci avreste visti provare, poi avreste visto la conclusione. Ma abbiamo finito per restare a Twickenham... In quel momento, fra noi, le cose si stavano facendo pesanti perché stavamo insieme da molto tempo e cominciavano ad apparire le prime crepe».
È Paul McCartney a raccontare in modo più diretto, senza eufemismi, le dinamiche che portarono il 30 gennaio 1969 i Beatles a suonare sul tetto della Apple, la loro casa discografica, per quello che si sarebbe rivelato il loro ultimo concerto. Si disse che fosse il primo sul tetto di un palazzo, in realtà nel 1968 l' avevano già fatto i Jefferson Airplane, a New York.
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L' anniversario viene celebrato nel mondo ogni anno, però questa volta è diverso.
Suona il mezzo secolo a ricordarci che siamo nella storia, non solo della musica: perché i Beatles sono il simbolo del nuovo Novecento, la prima grande prova di quanto l' epoca nata dalle ceneri del Dopoguerra fosse grandiosa e geniale e destinata a durare per sempre, nella visione dei coetanei.
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Non senza un briciolo di trionfalismo, i volti e le musiche irripetibili di quattro ragazzi della classe operaia di Liverpool diventarono simboli di un mondo che vinceva finalmente su quello dei padri, imponendo una nuova cultura: e bene o male la sensazione dura ancora oggi che la storia, invece di voltare pagina, ha creato un nuovo file. E anche la vita di tutti noi da qualche tempo non è più la stessa.
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Come tutti gli accadimenti storici, fu il caso a mettere il naso in quella gelida giornata londinese al quartiere generale della Apple, casa discografica dei Fab Four. Il concerto era parte di un progetto intitolato originariamente Get back , cioè il lavoro per un ritorno alle radici rock dei Beatles, in uno sforzo romantico di ripristinare l' unità della band messa a dura prova dal business e dalle dinamiche esistenziali e interpersonali dei Quattro. Appena pochi giorni prima, c' era stato uno scontro violento fra Paul e George Harrison, che erano quasi venuti alle mani. George era stufo di farsi comandare da Paul e se n' era andato a casa.
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Tutto sembrava finito per sempre: ma poi gli altri tre avevano bussato alla sua porta, e rammendato la situazione. Il progetto, raccontò poi il loro produttore George Martin, «era di scrivere un album completo, fare le prove e poi eseguirlo davanti a un grande pubblico. Nessuno lo aveva mai fatto». Ma a Londra non c' erano spazi coperti abbastanza grandi per i Beatles: pensato alla nave, e alla California, l' energia era un po' scemata ed erano tornati alla base.
Un' équipe li filmava mentre facevano le prove e registravano un «album onesto» lontano dalle magie delle ultime opere. Un concerto doveva completare il documentario. Il 30 gennaio all' ora di pranzo salirono i cinque piani che portavano al tetto dell' edificio: una scelta rinunciataria, in fondo, che parlava anche di troppa stanchezza accumulata. L' idea fu rivendicata da molti, anche se il tastierista Billy Preston ricordò che era stato John a dirlo per primo. L' album e il film uscirono nel maggio 1970 con il titolo Let it be .
Faceva un freddo cane, 7 gradi più un vento gelido.
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John si fece prestare la pelliccia di Yoko, che avrebbe sposato poco tempo dopo; Ringo Starr si coprì con l' impermeabile rosso della moglie Maureen. George aveva il suo giaccone nero, e negli intervalli gli scaldavano le dita con l' accendino: suonava tra l' altro una Telecaster fatta a sua misura. Paul era in giacca e pantaloni blu e (apparentamente) non tremava. Particolari futili, nel campionario dell' imperdibile.
I microfoni furono avvolti da collant femminili per minimizzare il rumore del vento.
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Fu il primo concerto dei Beatles in più di due anni: l'ultimo tour era finito il 26 agosto 1966 a San Francisco. Ma la performance fu impeccabile (come non mai, forse) e il leggendario impasto vocale volò nell' aria gelida per la gioia di un pubblico che cominciò a bloccare il traffico: scendevano dalle auto, si mettevano con il naso all' insù. Dal terrazzo della casa di fronte, assisteva la discografica Vicki Wickham unica spettatrice; qualche curioso riuscì ad arrampicarsi fin sopra dalla scala antincendio.
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I poliziotti, il cui ufficio era poco distante, arrivarono quasi subito, subissati dalle telefonate per quella situazione che bloccava la città. Si dice che avrebbero potuto farlo prima, ma interruppero il concerto solo al quarantaduesimo minuto. Erano intanto volate cinque versioni di Get back , due di Don' t let me down , due di Dig a pony , I want you , I' ve got a feeling , un verso di Danny boy , God save the Queen , A pretty girl is like a melody di Irving Berling e One after 909 : quest' ultima, una delle prime composizioni di Lennon-McCartney, era un rocketto tenerello del 1962, cassato alla prima registrazione. Per riconnettersi al passato, forse, e da lì rilanciare. Ma invano.
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2 - L'ASCENSIONE DEI QUATTRO PER L'ADDIO AI LORO FAN E A UN' EPOCA IRRIPETIBILE
Maurizio Assalto per “la Stampa”
Il freddo meteorologico che il 30 gennaio di mezzo secolo fa, verso l' ora di pranzo, avrebbe comunque impedito di tirare ancora a lungo con quel concerto all' aria aperta, anche se a interromperlo dopo una quarantina di minuti non fosse intervenuta la polizia - perché ai musicisti si stavano congelando le mani, Ringo si soffiava il naso e John faticava a muovere le dita sulla chitarra -, corrisponde emblematicamente al gelo artistico, psicologico e umano ormai da tempo calato sui Fab Four. Che infatti di lì a poco, nel maggio dell' anno seguente, pubblicarono il loro album d' addio, Let it be , un mese dopo aver sciolto per sempre il più straordinario gruppo nella storia del pop-rock.
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Per la loro ultima esibizione dal vivo, una sorta di flashmob musicale ante litteram , i Beatles avevano scelto una location insolita, improvvisata, ma col senno di poi anche sommamente simbolica: il tetto dell' edificio di cinque piani che a Mayfair ospitava gli uffici della Apple Records, la loro casa di produzione al 3 di Savile Row.
Quattro numeri di distanza da quella che Jules Verne aveva immaginato come l'abitazione di Phileas Fogg, il protagonista del Giro del mondo in 80 giorni , anche lui non disdegnoso di arrampicarsi nel cielo, su un pallone aerostatico (nel film del '56 con David Niven, non nel romanzo originale). Ma quello dei Quattro non era un semplice volo di spostamento.
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È salendo in alto, sulla cima del monte Eta, che l'eroe mitico Eracle va a cercare la fine; lo stesso si dice abbia fatto il filosofo Empedocle, per convincere i concittadini agrigentini di essere un dio assunto da quelli di lassù.
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E con l' Ascensione in cielo si conclude la parabola terrena di Gesù che si congeda dagli apostoli, quaranta giorni dopo essere risorto. L' ascensione di John, Paul, George e Ringo (nell' occasione accompagnati da Billy Preston) è il congedo dalla folla dei propri fan che già dalle prime note si erano accalcati in strada, nella celebre via dei sarti londinesi. Ma è anche, nel contempo, il congedo da un' epoca, dalla Swinging London della rivoluzione dei costumi, della liberazione sessuale, delle minigonne e della Pop Art, lo spensierato ombelico di un mondo che si era lasciato alle spalle l' austerità del dopoguerra e si apriva al nuovo con giovanile entusiasmo, nel segno di una creatività disordinata e straripante.
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Quel «Rooftop Concert» è il suggello di un decennio bellissimo e irripetibile, che nonostante le guerre, dal Vietnam al Medio Oriente, gli omicidi politici, gli odii razziali, le follie ideologiche, la fame nel Biafra, nonostante tutto aveva saputo superare tragedie e tensioni con la levità, la fiducia e lo spirito ottimistico espressi in una canzone simbolo beatlesiana come Revolution : «You say you want a revolution», «Dici che vuoi una rivoluzione, beh sai, tutti noi vogliamo cambiare il mondo. […] Ma quando parli di distruzione non lo sai che non puoi contare su di me, non lo sai che andrà tutto bene, tutto bene, tutto bene. [] Dici che cambierai la costituzione, beh sai, tutti noi vogliamo cambiarti la testa. Mi dici che è l' istituzione, beh sai, farai meglio invece a cambiare il tuo modo di pensare.
Ma se te ne vai in giro con i ritratti del presidente Mao, non ce la farai con nessuno in nessun modo».
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Parole profetiche (di John Lennon), illusioni forse, o più propriamente sogni, ma deve essere stato bello sognarli. Poi i Beatles sono finiti, disperdendosi per le vie dorate e in qualche caso tragiche dei loro destini individuali, e mettendo il punto alla più fulminea e travolgente avventura musicale dai tempi di Mozart (che se fosse vissuto un po' di più, invece di morire a 35 anni, avrebbe probabilmente scritto lui Sgt. Pepper' s e Yellow Submarine, risparmiandoci qualche atroce pagina di sinfonismo otto-novecentesco).
Quando nel Vangelo di Matteo appare per l' ultima volta ai suoi discepoli, su un monte (ancora: un monte) della Galilea, Gesù li rassicura: «Io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo». Senza arrivare a tanto, anche noi beatlesiani - della prima ora o postumi, per ragioni anagrafiche - dalla nostalgia di quel mondo (anche se non vissuto), e della sua colonna sonora, saremo scortati sempre.
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