Rita Querzè per “Sette”
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Cambiano gli inquilini della moda nel cuore di Milano: arriva Uniqlo, se ne va Abercrombie. La catena giapponese della moda no logo a prezzi bassi, accenderà l’insegna in piazza Cordusio il 13 settembre.
Intanto il marchio americano prepara gli scatoloni per il trasloco: se ne andrà nella seconda metà del 2020. La concomitanza rappresenta in modo perfetto l’evoluzione del cosiddetto “fast fashion”, la moda globale di massa. Il primo negozio Uniqlo ha alzato la saracinesca in Giappone, a Hiroshima, nel 1984. L’obiettivo del fondatore, Tadashi Yanai, l’uomo più ricco del Giappone, è creare il maggior gruppo al mondo del settore. Nel 2018 Fast retailing, la società che controlla Uniqlo, ha raggiunto i 16 miliardi di euro di fatturato.
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I principali concorrenti non sono distanti: l’anno scorso la scandinava H&M ha prodotto ricavi per 20 miliardi di euro, Zara (controllata dalla spagnola Inditex) è a 26 miliardi. Oggi anche chi ha buona capacità d’acquisto mescola Zara con Gucci, H&M e Dolce e Gabbana. L’acquisto intelligente è il nuovo must. E Uniqlo si presenta come il paradiso degli acquisti intelligenti. Maglioncini di cachemire a 80 euro, maglie di cotone a 12 euro, piumini a cento euro ma tecnici e leggerissimi. L’ambizione è garantire gli stessi prezzi che si trovano dai concorrenti ma con una qualità più alta.
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«Magliette e canottiere di un cotone che resiste bene ai lavaggi, zip che funzionano, impunture che non si aprono alla prima sollecitazione », constata il sociologo Enrico Finzi. «A questo finora molti avevano rinunciato in nome del prezzo. Ora la sfida è tenere assieme le due cose».
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I marchi come Uniqlo (ma anche Primark, altra catena del fast fashion con prezzi stracciatissimi) vengono chiamati category killer. In pratica alzano ancora l’asticella della competizione tra brand. E sopravviva il migliore. Qualcuno comincia già a leccarsi le ferite. È il caso di Abercrombie. Quando ha aperto 10 anni fa a Milano era riconoscibile dalle file di adolescenti in coda per entrare. Più che un negozio era un teatro: luci basse, musica alta, commessi a torso nudo.
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Le camicie da boscaiolo illuminate dai faretti sembravano solo la scusa per dare vita alla rappresentazione. Una scusa troppo costosa, però. E così è arrivata la decisione di abbandonare la piazza. Le ragioni del flop Ce la si può prendere con gli affitti commerciali che a Milano stanno arrivando alle stelle, come ammette anche Il presidente di Assimprendil- Ance, l’associazione dei costruttori milanesi, Marco Dettori.
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Ma in realtà a mettere in difficoltà il marchio americano è stato un cambio di paradigma. «Il mercato non perdona più i prezzi alti se non sono legati a un certo livello di qualità. Puoi andare avanti un po’ di anni grazie all’innamoramento dei teenager. Ma quando questo finisce le vendite crollano», va al punto Sandro Castaldo, docente di Marketing alla Bocconi. «Modelli semplici, ottima vestibilità, ampia gamma di colori: Uniqlo vende un prodotto, Abercrombie un brand», sintetizza Roberto Bonati, presidente del gruppo retail outlet e agente di Tally Weil per l’Italia, altro marchio che piace ai giovani. Naj Oleari stava agli Anni 80 come Abercrombie ai 2000. Ma ora quel tipo di modello mostra la corda.
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Come evidenzia un rapporto targato Confesercenti, nel 2018 la spesa media annuale in termini reali – cioè al netto dell’inflazione – delle famiglie italiane è stata di 28.251 euro, inferiore dell’8,2% rispetto ai livelli del 2011. Se nel 1992 gli italiani destinavano al vestiario il 13,6% delle loro spese, nel 2018 siamo scesi addirittura al 4,4%. Prezzi bassi e costi (umani) «Il goal delle famiglie è spendere meno ma non rinunciare a nulla», spiega Enrico Finzi.
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Ed ecco allora che le catene come Zara, H&M e presto Uniqlo vengono in aiuto. Così ogni anno si compra lo stesso numero di capi. Ma spendendo meno di prima. «Anche il boom degli outlet va letto alla luce di questa esigenza», aggiunge Castaldo. Certo, le piccole boutique hanno avuto la peggio. Fa notare ancora Confesercenti che dal 2011 a oggi sono spariti 13 mila negozi di abbigliamento e 3.500 di calzature.
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Ma come fanno Uniqlo & C. a tenere prezzi così bassi? «Mediamente il costo di produzione di un capo di abbigliamento è pari al 15- 20% del prezzo finale. Chi controlla tutta la filiera, dalla produzione alla distribuzione, alla vendita, è avvantaggiato», spiega Castaldo. Esattamente quello che fanno le catene del fast fashion. Poi c’è il costo del lavoro. Secondo un’indagine del centro Stern della New York University i lavoratori del settore tessile possono guadagnare 340 dollari al mese in Turchia, 326 in Cina, 309 in Tailandia è così via scendendo.
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Fino ad arrivare ai 95 dollari al mese del Bangladesh e ai 26 dollari al mese dell’Etiopia, limite più basso in assoluto. L’alleanza internazionale Clean Clothes ha appena prodotto una nuova indagine analizzando le retribuzioni dei primi 20 marchi della moda di massa.
Ne risulta che solo Gucci è in grado di dimostrare che il 25% dei dipendenti ha una busta paga sufficiente a garantire una vita dignitosa. Gli altri non danno alcuna garanzia in proposito. E tra questi anche H&M, Zara, Uniqlo, Primark. Per ora i prezzi bassi fanno dimenticare tutto. Anche l’etica.
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