Alessandro Mondo per “la Stampa”
LA VIDEOCHIAMATA DI UN ANZIANO MALATO DI CORONAVIRUS AI PARENTI
Nei tempi del Covid-19 capita che ci si congedi dalla vita, e dagli affetti più cari, con una telefonata. Anzi: con una videochiamata. Magari dopo essersi fatti prestare lo smartphone da un medico o da un infermiere, bardati come astronauti. I pazienti, quelli che stanno precipitando, intravvedono gli occhi e intuiscono l' uomo, o la donna. A loro chiedono l'estremo aiuto. I familiari sono confinati in uno schermo, presenze care e loro malgrado lontane. Spaventoso, ma è così.
«I malati sono sempre soli: dal ricovero fino alla fine», spiega l' infermiera di un grande ospedale torinese con voce spenta. La fine che può essere fausta, cioè culminare con la guarigione, o infausta: l' ultima tappa del deterioramento del quadro clinico. Per questo il telefono diventa essenziale. Non un telefono qualsiasi - di quelli con i tasti, prerogativa degli anziani - ma lo smartphone: per comunicare e per vedere ancora una volta il volto dei figli, delle nuore e dei generi, dei nipoti. Sovente l' ultima.
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«Alcuni ce lo chiedono perché l' insufficienza respiratoria peggiora e capiscono che sta arrivando la fine - racconta l' infermiera -. Cerchiamo di assecondarli quando non hanno ancora indossato il casco per la ventilazione: con quello non possono parlare, soltanto bere tramite una cannuccia. Oppure lo sfiliamo un attimo, il tempo della telefonata. Per loro è un conforto enorme». Conforto anche per i loro cari, nonostante lo strazio.
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Il coronavirus uccide: nelle terapie intensive e sub-intensive, nei pronto soccorso, nei reparti. «I pazienti sono distribuiti sulla base di una valutazione quotidiana delle condizioni cliniche che considera la possibilità di ripristinare un equilibrio - spiega il professor Luca Brazzi, direttore della rianimazione universitaria di Torino -. La terapia intensiva non è sempre indicata per tutti, l' età non è un discrimine: le condizioni possono suggerire il ricovero in rianimazione di un anziano e consentire il ricovero di un soggetto più giovane in un reparto a minore invasività di trattamento».
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Il distacco Ma prima di morire per il virus si rischia di morire di solitudine: l' altro avversario da affrontare quando si arriva all' ultimo miglio, così come durante le cure. È questo a consacrare l' importanza del telefono, anche per i più giovani. Loro lo smartphone ce l' hanno, ma nella fase precipitosa del ricovero lo lasciano a casa. O lasciano a casa il caricabatterie. Allora succede che i famigliari spediscano l' uno e l' altro, pregando gli operatori di recapitarli.
Perché dal momento in cui entrano in ospedale, nessuno se non il personale può avvicinarli: solo rapporti mediati. Quando finisce male, i famigliari non vedono più nemmeno la salma. E se capita che sono in quarantena, la solitudine del defunto si estende alla cerimonia funebre. Non a caso, la comunicazione e l' informazione sono parte integrante del percorso di cura: anche quando si risolve felicemente.
reparto di terapia intensiva brescia 22
«Per noi è una grande angoscia, come essere in guerra - spiega il dottor Umberto Fiandra, dirigente medico della Città della Salute di Torino -. Ogni giorno un' équipe di medici e psicologi chiama i parenti per aggiornarli sulle condizioni dei pazienti». Per informarli, e talora per prepararli.
Per questo, aggiunge Brazzi, «ci attrezziamo per avere smartphone e tablet da tenere in reparto». «Immagini un paziente critico: privato degli affetti e circondato da persone di cui vede solo gli occhi - spiega un altro infermiere -. Immagini anche come noi viviamo certe situazioni. Magari qualche giorno dopo avere prestato il nostro telefono ad un malato scopriamo che non ce l' hanno fatta. È un carico emotivo davvero insostenibile. Come lo affrontiamo? Piangendo: tra di noi o a casa, quando siamo soli».
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