Aldo Cazzullo per il “Corriere della Sera”
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Gianluigi Gabetti, qual è il suo primo ricordo?
«Le passeggiate con i nonni sotto i portici di via Sacchi a Torino, dove sono nato il 29 agosto 1924, vicino alla casa di Bobbio. Incontravamo spesso "uffiziali" di cavalleria, come li chiamava la nonna, che mi raccontava la loro pena per aver dovuto caricare gli operai, durante i disordini del 1920».
Cosa facevano i suoi genitori?
«Mia madre Elena amava giocare a tennis. Aveva imparato al circolo di Bordighera, dove c'era una piccola comunità di ufficiali inglesi venuti a curarsi le ferite della Grande Guerra.
Diventò una delle prime giocatrici italiane di prima categoria. Mio padre Ottavio era capo di gabinetto del prefetto di Torino. Fu trasferito sul Garda, perché D'Annunzio dal Vittoriale aveva chiesto che a reggere la sottoprefettura ci fosse uno di quelli che piacevano a lui. Papà era andato in guerra da volontario».
GIANLUIGI GABETTI jpeg
Come si trovarono suo padre e D'Annunzio?
«Benissimo. D' Annunzio gli chiedeva dei soldi e faceva la corte a mia madre, che era molto bella e altrettanto riservata. La prendeva sottobraccio e le mostrava la prua della nave Puglia, declamando sciocchezze: "Quando morirò i miei legionari grideranno "La nave Puglia si è fatta pietra!"". D' Annunzio amava molto fotografarsi, avevamo la casa piena di sue foto».
GIANLUIGI GABETTI ALLA MESSA PER AGNELLI FOTO ANSA
Che ricordo ha del fascismo?
«Una bardatura. Un travestimento. Il fascismo ha travestito l'Italia: un Paese agghindato da fascista, che si comportava da fascista. Sentivo i nonni dire: "È tutta una pagliacciata, ma non diciamolo a Ottavio per non metterlo in difficoltà"».
Perché?
«Mio padre doveva indossare la divisa in orbace. Che detestava, sia per il tessuto sia per la foggia. Fu nominato prefetto a Sassari. Andammo tutti e ci piacque molto. Studiavo al liceo Azuni, dove c'era già Enrico Berlinguer e da lì a poco sarebbe arrivato Francesco Cossiga».
Com'era la Sardegna degli anni '30?
Marrone Gabetti e Grande Stevens
«Meravigliosa. Il fascismo la lambiva appena. Spazi immensi e vuoti. I sardi ci invitavano alla caccia al cinghiale. Sono persone di forti sentimenti. Quando nel 1940 tornammo in Piemonte, a salutarci alla stazione erano a migliaia».
Come ricorda la guerra?
«I bombardamenti distrussero la nostra casa di Torino. Riparammo in campagna, a Magliano Alfieri. Nel castello era di stanza un reggimento. Parlo tedesco, e l'8 settembre il colonnello comandante mi chiamò come interprete. I nazisti chiesero la resa incondizionata. Provai un'umiliazione profonda nel tradurre la risposta. Vidi mille italiani deporre le armi davanti a sei tedeschi: finirono tutti nei lager. La gente saccheggiò il castello: portarono via ogni cosa, anche le brande, incitandosi l'uno con l' altro. Una scena mortificante. Ma quando con mio fratello Roberto, il futuro architetto, ci nascondevamo in cantina, tutti in paese sapevano, e nessuno tradì».
gianni agnelli paolo fresco
Come passavate il tempo?
«A leggere l'Enciclopedia di D'Alembert e Diderot, di cui avevamo trovato una copia settecentesca nella biblioteca del nonno. Ci interessavano soprattutto le implicazioni pratiche. Imparammo a trarre il salgemma dalle acque stagnanti intorno al Tanaro, che scambiavamo contro merce in tabaccheria. Costruimmo un distillatore per fare con le pesche macerate l'alcol etilico, che fornivamo alla farmacia in cambio di medicine per i parenti anziani. Poi mi stancai e andai a fare il partigiano».
Con quale formazione?
«Giustizia e Libertà. Nome di battaglia Attilio, come mio nonno. Molti studenti, qualche operaio, un paio di avanzi di galera. Ci comandava un capitano dell' esercito, il bravo Bava. Un giorno ci mandò all'assalto: il mio vicino cadde con le braccia larghe, come il miliziano della foto di Capa. Ma non era una pallottola, era un attacco di epilessia».
Gianni Agnelli con Edoardo
Lei fu fatto prigioniero.
«Lo fui quasi, dai partigiani comunisti: mi salvò un vecchio piemontese che conosceva mio padre. In marcia verso Asti ci trovammo di fronte i panzer tedeschi: alzarono la bandiera bianca. Trattai con loro, da solo, come l'omino di piazza Tienanmen. Mi chiesero se il ponte era minato».
Lo era?
«Se lo fosse stato, non sarei qui. Ci costrinsero ad andare avanti noi. Anche sconfitti, i nazisti non avevano perso la loro arroganza».
La sua carriera comincia alla Banca Commerciale.
«Ricordo un immenso salone. Mi imposi di imparare tutto in ogni ufficio: libretti di risparmio, conti correnti, cassette di sicurezza. Poi ricominciai al primo piano, dove arrivai sostituendo una dattilografa. Ho mangiato tanta merda, che alla fine però diventa nutriente».
ADRIANO OLIVETTI A IVREA
Com' era il capo, Raffaele Mattioli?
«Entrai nella sua stanza buia. Era di schiena: stava mettendo in ordine le pecorelle nel presepio. Si girò, disse: "E tu, che cazzo vuoi?". Mattioli era sboccatissimo. "Presidente, mi ha fatto venire lei". "Ah sì. Mi dicono che lei fa un sacco di cose. Ci rivedremo": mi aveva preso in simpatia».
Poi la chiamò Adriano Olivetti. Come lo ricorda?
«Ero andato da lui quasi di nascosto. Aveva due occhi azzurri da ipnotizzatore. Mi parlò di filosofia, di religione. Poi disse: "Lei deve lavorare qui dentro". Dopo due settimane mi arrivò una sua lettera».
Cosa c'era scritto?
«Tutto quello che avrei dovuto fare nei dieci anni successivi. Visitare le filiali, studiare lo sviluppo nel Nord America».
adriano olivetti il visionario di ivrea e la L m sHVM jpeg
A New York lei conobbe sua moglie, americana.
«Andammo in giro una sera d'autunno con Roberto Olivetti su una Oldsmobile decapottabile. Mi presi la polmonite, lei mi accudì. Per ringraziarla la invitai a cena in un locale alla moda, El Morocco. Ci diedero il tavolo accanto all' orchestra. "Non ero mai stata in Siberia prima d'ora" mi disse. Non capii; non sapevo che la "Siberia" nel gergo newyorkese era il tavolo peggiore».
Come recuperò?
«Scoprii che il proprietario si chiamava Perona ed era di Ivrea. Lo chiamai. La volta successiva ci trattarono come principi. Ci sposammo. Bettina fu una grande moglie, scomparsa nel 2008».
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Infine la chiamò Agnelli.
«Mi chiese di visitare il MoMa nel giorno di chiusura. Ero nel board e ci riuscii. Ma quando mi propose di tornare in Italia esitai. Fu mia moglie a convincermi. Visentini, allora presidente Olivetti, mi tolse il saluto».
Qual era il suo ruolo?
«Come amministratore delegato dell' Ifi dovevo investire e diversificare. Non mi sono mai occupato del patrimonio personale dell'Avvocato. Quando la Fiat andò in crisi ci trovammo costretti a vendere quanto occorreva per salvaguardare l'indipendenza dell' intero Gruppo».
Con Romiti non avete mai avuto un gran rapporto.
«Non dovevamo averlo. Io ero l'esponente della proprietà, lui il responsabile della gestione del nostro più importante investimento. La cosa non gli andava sempre bene, per cui la relazione era talvolta tesa. Ma non abbiamo mai avuto veri attriti. Ci fu sempre stima personale».
Romiti era troppo legato a Cuccia per lei?
Gianni Agnelli con De Benedetti
«Certo era più vicino di quanto non fossi io. Era nella natura di Cuccia essere un dominatore, dire quello che gli altri dovevano fare, e io questo non potevo accettarlo anche perché il massimo esponente del Gruppo era l' Avvocato».
Agnelli aveva soggezione verso Cuccia?
«Non ho mai visto Agnelli in soggezione con nessuno. Così come non l'ho mai visto trattare male nessuno. Per Cuccia aveva rispetto, da lui accettava qualsiasi osservazione».
Com' era l'Avvocato nella vita privata?
«Un maestro delle sfumature. Si faceva obbedire da tutti, Romiti compreso, senza bisogno di dare ordini. E lavorava molto. Si affaticava. L' idea dell' Avvocato scansafatiche è una leggenda».
Com' erano i rapporti con De Benedetti?
CARLO DE BENEDETTI AGNELLI
«Buoni ma cauti. Avevano una buona considerazione l' uno dell' altro, ma non si fidavano sino in fondo l' uno dell' altro».
Lei era contrario a comprare il «Corriere».
«Avevamo già La Stampa. Ma Agnelli era un talent scout di giornalisti».
Quando lo vide per l'ultima volta?
«Mi dà pena riparlarne. Soffriva molto. Mi prese la mano e se la portò qui, tra la guancia e la tempia destra. Poi mi fece un saluto militare. Non quello classico con la mano di taglio sulla fronte; più ampio, tipo segnaletica da marinaio».
Lei è finito sotto processo pur di mantenere il controllo alla famiglia.
«Si trattava di impedire che della Fiat venisse fatto uno spezzatino. Con Grande Stevens si trovò la soluzione legale».
Come è arrivato al vertice Marchionne?
sergio marchionne john elkann
«Quando Umberto stava morendo, venne da me Morchio a dirmi che il successore era lui.
Al funerale spiegava agli eredi di essere pronto a diventare anche azionista».
E loro?
«Ebbero qualche tentazione, ma la respinsero. Allora mi tornò in mente Marchionne, che Umberto aveva portato in consiglio. Non aveva casa a Torino, ci eravamo visti qualche volta a cena con mia moglie. Ai consiglieri dissi: c'è una scelta che vi raccomando, Marchionne, e una che vi raccomando di lasciar cadere. Presero la decisione giusta. Marchionne ha un tratto di genialità».
sergio marchionne Harald Wester e john elkann
Com'è il suo rapporto con i nipoti dell'Avvocato?
«Credo francamente di essere stato l'uomo più vicino al loro nonno. Adesso è il momento di John. La famiglia è raccolta attorno a lui».
Chi verrà dopo Marchionne?
«Credo non lo sappia neanche lui. Deciderà insieme con Elkann».
Quanto della Fiat resterà in Italia?
«Non lo so. Ormai dobbiamo pensare in termini europei e globali».
umberto gianni agnelli
E il futuro del nostro Paese come lo vede?
«Male, se non fosse per il legame con l' Europa. Più sarà forte e sentito, più ci allontaneremo dal baratro».