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Raffaele d'Ettorre per “il Messaggero”
È forse la tecnologia più controversa di tutte. Entrata nelle nostre vite insieme agli smartphone, la tecnica del riconoscimento facciale viene spesso associata a un futuro orwelliano di sorveglianza continua. Certo non aiuta il caso della Cina, dove una vasta rete di telecamere collocate in tutto il Paese registra ogni giorno i movimenti dei cittadini. Ma ci sono anche esempi virtuosi come quello di Face2Gene, una app che viene già usata da migliaia di genetisti in tutto il mondo per individuare patologie genetiche rare nei bambini.
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Oggi questa tecnologia sta vivendo un cambiamento di percezione, non solo per i rischi legali che comporta, ma anche perché, con la pandemia e le mascherine perennemente indossate, è come se ci fossimo abituati a non riconoscere il volto dell'altro, nemmeno per strada. Tanto che le aziende produttrici di smartphone stanno via via tornando a valorizzare i sistemi di riconoscimento delle impronte digitali.
E anche Apple, nel nuovo iPhone SE, non ha eliminato il caro vecchio tasto Home con sensore Touch ID integrato, che rappresenta una soluzione pratica ed economica. Dove però emergono con maggiore forza tutte le contraddizioni e i limiti di questa tecnologia è nell'uso che ne fanno le forze dell'ordine. Oggi quasi la metà degli adulti statunitensi fa parte dei database di riconoscimento facciale della polizia, e sono state già evidenziate diverse problematiche che riguardano le minoranze, soggette a un maggior numero di errori da parte del software.
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Nonostante questo, le forze dell'ordine di tutto il mondo continuano a scommettere sul riconoscimento facciale come aiuto investigativo, appoggiandosi a società terze che mettono a disposizione gli algoritmi necessari allo scopo. E a volte, incredibilmente, anche i database.
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IL CASO
Una di queste aziende è Clearview AI, che ha costruito nel tempo un vero e proprio impero di dati scaricando dal web più di 10 miliardi di foto. Un archivio mastodontico che la stessa società lo scorso febbraio aveva dichiarato di voler portare a quota 100 miliardi, perché l'obiettivo finale era quello di rendere «quasi ogni persona al mondo identificabile».
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Ma c'è di più, perché l'algoritmo sviluppato dall'azienda è anche in grado di ricreare da zero (con una corrispondenza del 75%) il profilo di una persona incrociando i dati biometrici contenuti in quelle immagini con altre informazioni analoghe, ad esempio la geolocalizzazione. C'è un problema, però. Il download massivo di immagini e dati personali da internet, che in gergo viene chiamato scraping, in moltissimi ordinamenti (compreso quello italiano) è severamente vietato. Specie quando viene effettuato senza aver ottenuto prima il consenso dei diretti interessati e per scopi diversi rispetto a quelli per cui quelle foto erano state pubblicate online.
Videosorveglianza con riconoscimento facciale
«Quando pubblichiamo una foto sui social», spiega Guido Scorza, avvocato e membro del Garante per la Privacy, «è vero che è accessibile a chiunque, ma questo non significa che sia disponibile per chiunque. Anche se imposto la privacy della foto come pubblica, sto dando il consenso perché quella foto sia accessibile solo attraverso quel social network, non che sia disponibile a terzi per farne gli usi che vogliono».
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IL VUOTO NORMATIVO
Ed è proprio questa la tesi sostenuta da Clearview AI, che si è trincerata dietro il Primo Emendamento per sfuggire alle lettere di diffida inviate nel frattempo dalle principali aziende social. Ma a poco è servito, dato che oggi la società americana viene multata per 20 milioni di euro dal Garante per la Privacy, che contesta a Clearview AI di aver violato alcuni principi base del GDPR (il regolamento dell'Unione europea sul trattamento dei dati personali) e che mette subito le cose in chiaro: niente raccolta dati senza il nostro consenso.
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Ma secondo Scorza nemmeno il via libera degli interessati da solo sarebbe bastato per avviare una raccolta dati del genere. «Serve anche una base giuridica», dice Scorza, «cioè una legge che giustifichi la raccolta massiva di immagini ai fini del riconoscimento facciale. Una normativa che fortunatamente oggi non esiste in nessun ordinamento». Un vuoto normativo che oggi sta spingendo anche i colossi hi-tech a muoversi con circospezione, in attesa che il Congresso si pronunci in maniera chiara sul tema.
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Amazon, Microsoft, Google e IBM hanno sospeso l'implementazione di questa tecnologia nei loro prodotti, dicendosi «preoccupati» per i rischi che comporta. A dicembre, con la conversione del D.L. 139 del 2021, l'Italia ha vietato l'uso delle tecnologie di riconoscimento facciale nei luoghi pubblici. Il legislatore parla di una tecnologia ancora immatura, con un rischio di falso positivo troppo elevato. «Non ho dubbi che questa tecnologia potrà essere usata in futuro per scopi benefici», conclude Scorza, «ma su fatto che possa esserlo oggi, specie se associata a sistemi automatizzati come quello di Clearview, ho qualche riserva».
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