Valeria Palumbo per “Oggi”
SALOME BENE
«Dovevo chiamarmi Carla. Altro che Salomè. Mio padre voleva un nome che iniziasse per “C”. Avevo già il corredino con la cifra. Poi, nel percorso che lo portava all’anagrafe di Roma, cambiò idea. E divenni Salomè. Anzi: Salome senza accento, più Isa Isa, come Zsa Zsa Gabor».
Salomè Bene aveva 10 anni quando suo padre, l’amato-odiato-venerato-sbeffeggiato Carmelo Bene, drammaturgo, attore, regista, poeta, rivoluzionario e sovversivo, morì, il 16 marzo 2002. Parlando del suo nome depone la sua compostezza («Sa, è la prima volta che parlo a un giornale») per farsi una grande risata.
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«Perché Salomè? Perché era lui. Imprevedibile. Mandò pure in confusione l’ufficiale dell’anagrafe che non capì più nulla con “Isa Isa”. A 18 anni ho parzialmente rimediato: Isa Isa è scomparso e Salomè adesso ha il suo accento».
Si capisce che, per carattere, avrebbe preferito Carla. Ma ci sono forse tante cose che questa bella e solida trentenne che fa l’avvocato («non scriva “avvocata”: non ci sono più discriminazioni») e vive tra tre città, Torino, Roma e Lecce, avrebbe voluto diverse.
Carmelo Pompilio Realino Antonio Bene, come si chiamava il più indefinibile protagonista del “nuovo teatro italiano”, l’ha messa subito sull’otto volante e l’ha lanciata nel vuoto. «Ho dovuto costruirmi una corazza. Mi vede così precisa ma ho dovuto difendermi, farmi scudo. Crearmi due anime e due vite».
Quella per cui ora esce allo scoperto gliel’ha ispirata-imposta proprio il padre: l’ha resa unica erede, assieme a una Fondazione che nel frattempo si è estinta, di tutto il suo patrimonio.
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Che è sparpagliato e vario: abiti di scena, libri, documenti, foto, incisioni sonore, arredi dalle case di Roma e Otranto, gli angeli di Gino Marotta creati per la scenografia dello spettacolo Hommelette for Hamlet. Le maschere, no: non sono più tornate a casa dopo una mostra. Ma Salomè evita polemiche.
Anche perché, a 20 anni dalla morte di Carmelo, questo patrimonio ha una casa, a Lecce, e apre al pubblico. L’archivio è ancora in restauro, ma la biblioteca è già catalogata e digitalizzata e presto entrerà nel Sistema bibliotecario nazionale. A disposizione di tutti.
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Anche gli arredi e i 30 costumi di scena sono già esposti. L’impresa è stata grande, non solo perché Salomè ci si è trovata dentro giovanissima («Quante volte, nei momenti di sconforto, mi sono trovata a chiedergli: perché, papa?»). È successo nel 2005, quando, estinta la Fondazione, è confluito tutto su di lei. Certo, la madre, la zia, la famiglia, gli amici le hanno dato una mano. Ma è pure un’impresa costosa e ha bisogno di un’organizzazione complessa («Voglio che sia tutto trasparente e pubblico; quindi i tempi si allungano e le decisioni sono più difficili»). Andrà tenuta in vita con una serie di iniziative originali: «Perché Carmelo Bene era un innovatore. Non ne possiamo fare un’istituzione o un monumento».
Il Fondo è ora al sicuro al Convitto Palmieri, la natura giuridica è ben definita, la biblioteca sistemata dalle monache benedettine di Lecce (curioso destino per quel “diavolo” di Bene) e l’archivio è in buone mani. Così sono partite le altre iniziative: aprile le vedrà fiorire. La prima è stata una installazione sonora in piazza Sant’Oronzo.
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L’intenzione è avvicinare i giovani. «Ma con compostezza». È la parola che ripete più spesso. “Composto” come si sposa con l’esuberanza di suo padre? «Va bene, era contraddittorio. Ma voglio che emerga la sua contraddittorietà in ambito culturale. È sbagliato ricordare la sua storia personale».
Abbiamo toccato il tasto dolente. Carmelo Bene è morto il 16 marzo. Lei è nata il 17 marzo. «Morì di sera. Me lo dissero al mattino del mio compleanno. Eravamo a Torino con mamma, Raffaella Baracchi (ex Miss Italia 1983 e attrice, ndr) per assistere il nonno. I miei erano separati, io non l’ho quasi mai visto negli ultimi anni. Era malato, si era molto chiuso, c’era chi poneva ostacoli. Però quel giorno ho capito subito che non avrei più potuto parlargli. Dentro mi è rimasto questo: tutto quello che avrei voluto dirgli e oggi, credo, saprei dirgli meglio».
Si è data una risposta sul perché suo padre abbia affidato la sua eredità a lei, una bambina di neanche 10 anni?
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«Perché era un grande? Non mi fraintenda: non era un grande perché ha scelto me, ma perché vedeva oltre. Perché aveva intuizione. Ha voluto mettermi alla prova? Voleva provocare? No, in realtà non ho una risposta».
Ma ha dedicato la sua vita a questa impresa, a questa sfida.
«No, ho dato la preferenza alla mia vita. Sono orgogliosissima dime stessa. I miei amici hanno scoperto tardi che ero la figlia di Carmelo Bene. E ancora adesso sono due vite separate».
Sarà stato difficile…
«Se non avessi avuto una mia spiritualità non avrei saputo gestire tante difficoltà. Sono cattolica. Ho studiato in Vaticano. Formazione classica. Ma fu una scelta condivisa dei miei genitori. Lo stile di vita di mio padre non era adatto a una bambina.
Lui aveva comunque studiato dai salesiani e io frequento ancora gli anziani sacerdoti i cui studi furono sostenuti dalla sua mamma, una vera benefattrice».
Il rapporto con lui? Ha dovuto inventarlo.
«L’ho ricostruito. Negli anni ho ritrovato cose che aveva scritto per me. Mi ha aiutato tanto anche mia zia, Maria Luisa Bene ( scomparsa nel 2013, ndr). Mi ha difeso. Mi ha raccontato».
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