R.E.per "la Stampa"
GIANLUIGI TORZI
Nuovi guai giudiziari per il broker Gianluigi Torzi, indagato dalla magistratura vaticana nell'inchiesta sul palazzo londinese di Sloane Anevue, da quella romana e ora, per la seconda volta, da quella milanese. Dopo le accuse mosse dalla Procura di Milano per il caso del maxi raggiro ai danni della società di mutuo soccorso "Cesare Pozzo", figura anche tra i cinque indagati per una presunta truffa da 1 miliardo di euro su operazioni di cartolarizzazione di crediti cosiddetti sanitari.
Ieri su delega dei pm Cristian Barilli e Carlo Scalas e dell'aggiunto Maurizio Romanelli, il Nucleo di polizia economico finanziaria della Gdf ha effettuato perquisizioni e acquisizioni in Lombardia, Emilia-Romagna e Piemonte nei confronti di persone fisiche e società nell'ambito di una indagine, nata da quella sulla Cesare Pozzo, in cui sono ipotizzati a vario titolo i reati di associazione per delinquere, truffa e corruzione tra privati. Indagine in cui oltre a un manager legato al mondo bancario, ci sono altri tre indagati assieme a Torzi, attualmente a Londra e rimesso in libertà dal Tribunale del Riesame della capitale.
GIANLUIGI TORZI
Secondo gli accertamenti, sarebbe stato architettato un meccanismo complesso ma ben oliato e che richiama quello al centro di inchieste giornalistiche sui cosiddetti «mafia bond». In sostanza, il sistema ricostruito in seguito agli approfondimenti delle Fiamme Gialle si sarebbe basato su imprese operative nel settore sanitario che vantavano dei crediti nei confronti di Asl calabresi, campane e laziali.
GIANLUIGI TORZI PAPA BERGOGLIO
Crediti, però, «inesigibili» perché relativi a prestazioni effettuate fuori dal budget e, dunque, non rimborsabili dalle azienda sanitarie locali. Le imprese, che presentavano anche «criticità» fiscali e economico-finanziarie tanto da rientrare per l'appunto nello schema dei cosiddetti «mafia bond», vendevano quei crediti al gruppo di Torzi, che attraverso una «piattaforma» societaria li rimetteva in circolo, attraverso la creazione di prodotti obbligazionari che avevano «in pancia» i crediti ritenuti «fantasma», e tramite «cartolarizzazioni».
Prodotti sottoscritti da diversi investitori istituzionali quotati in borsa, tra cui gruppi bancari, che avrebbero puntato a notevoli guadagni e al recupero del capitale impiegato con tanto di interessi. Nell'inchiesta Banca Generali è parte lesa e sta collaborando senza nessun coinvolgimento nel provvedimento.