squid game the challenge
Massimiliano Panarari per “la Stampa”
La distopia si fa realtà. O, per meglio dire, reality, come Squid Game: The Challenge, che da seguitissimo serial si converte in uno show con concorrenti in carne e ossa. Anzi, nel «più grande reality di sempre», come si premura di specificare Netflix, una delle multinazionali dell'immaginario per eccellenza di questa nostra epoca.
squid game the challenge
Si può così affermare che la fantascienza (e, ovviamente, innanzitutto quella più cupa e dark) ha anticipato ancora una volta qualcosa destinato a concretizzarsi e a diventare l'equivalente di un gigantesco esperimento sociale, all'insegna di quella ricorsività e transmedialità dello storytelling che ispira i prodotti mediali contemporanei. E, mentre procede al reclutamento dei concorrenti del reality (456 come nel k-drama) con il montepremi più alto della storia (4,56 milioni di dollari, a proposito di numeri che si ripetono), Netflix fa sapere che per il 2024 è prevista una seconda stagione della serie.
Squid Game
Insomma, Il gioco del calamaro (e dei record in ogni campo) ha colpito e affondato la nostra assai inquieta sensibilità, oltre ad avere centrato i gusti di molti pubblici in giro per il Villaggio globale. Ennesima conferma - in un mondo che la nuova guerra fredda sta malauguratamente ridividendo in aree di influenza, come vogliono i regimi dittatoriali e le autocrazie illiberali - della potenza (e del soft power) della cultura pop mainstream.
Hwang Dong-hyuk sul set
Oltre che della sua «democraticità», secondo i principi di una «società aperta delle narrazioni» nella quale qualunque Paese abbia filo (ossia idee originali) da tessere può inserirsi con fortuna. E lo può fare proponendo all'opinione pubblica e ai consumatori planetari - con qualche inevitabile problema di «mediazione» - anche alcuni connotati specifici della propria cultura. Come mostra precisamente il caso dell'Hallyu (l'«ondata coreana»), che ha sfondato sul palcoscenico globale inizialmente con la musica (spesso «leggerissima») e gli stili modaioli degli idoli del k-pop, e ha bissato la conquista dell'attenzione mondiale per mezzo dei film di Bong Joon-Ho.
squid game 2
E, per molti versi, l'«ossessione» per lotta di classe del regista pluripremiato ritorna trasfigurata ulteriormente proprio in Squid Game, che è anche uno specchio anamorfico di quella Corea del Sud supercompetitiva (e sostanzialmente priva di welfare e assistenza sociale) che ha operato da apripista all'impetuosa (e diseguale) crescita economica delle Tigri asiatiche.
Un must delle distopie fantascientifiche consiste in quella versione postmoderna dei giochi gladiatori in cui i poveri e bisognosi dei vari ipergerarchici sistemi sociali del futuro si sottopongono a prove crudeli e lotte fratricide per il divertimento (e le scommesse) di spettatori beatamente più ricchi di loro. E qui, verosimilmente, risiede anche una delle eterne chiavi psicologiche del successo di quella che potremmo chiamare la guerra tra i poveri simbolica ma non troppo (anche se, vivaddio, non muore nessuno, come invece accadeva nel Colosseo di Roma antica e, virtualmente, nelle arene avveniristiche dei manga sci-fi nipponici e degli Hunger Games).
Squid Game 2
Ovvero la mescolanza del voyeurismo morboso della paura e della crudeltà - esercitate in relazione alle prove di un gioco infantile (massima dose di perfidia) - con la consolante sensazione di non essere finiti in quel tritacarne; un «toccasana» che, a ben guardare, funziona ancora di più se sprofondati nello spirito del tempo del sovranismo psichico rancoroso e delle «passioni tristi» (come le ha chiamate il filosofo e psicanalista Miguel Benasayag) private di qualsiasi speranza di un futuro migliore.
Dunque, per quanto l'esistenza possa sembrarmi piena di frustrazioni, ecco che c'è chi sta molto peggio di me, e il vantaggio comparativo, sebbene si riveli relativo, finisce per generare sollievo. Il tutto dentro un gioco che mette sotto i riflettori il lato oscuro della natura umana, e deve essere interpretato non mediante Huizinga ma piuttosto con Byung-Chul Han, secondo cui la dominazione è completa quando una società non fa altro che giocare (una considerazione che estende al fenomeno della «gamificazione» digitale).
Squid Game 3
E ora la gallina - pardon, il calamaro - dalle uova d'ora partorisce anche lo spin-off del reality, «più vero del vero», così anche il nostro godimento-conforto-alleggerimento si fa più denso e consistente (ci verrebbe da dire: «reale»). Perché a regalarcelo saranno individui impegnati effettivamente nella competizione e che, senza appunto rischiarla per davvero, cercano il colpo della vita inseguendo uno strabiliante premio finale.
All'insegna di quel principio del prendersi «tutto e subito» e della svolta che ti cambia l'esistenza che, a ben guardare, un certo neoliberismo ha instillato soprattutto nella mentalità delle classi subalterne (come si chiamavano durante il Secolo breve). E lo ha fatto tramite «format» differenti (dalle lotterie istantanee al talent-show), proprio mentre bloccava l'ascensore sociale, e lo obbligava a muoversi, tutt' al più, al «passo del gambero».
SQUID GAME
D'altronde, tra le varie letture possibili, Squid Game è anche il Grande Gioco del capitalismo postmoderno, al cui confronto Monopoli è un distillato di «conservatorismo compassionevole». Neodarwinismo sociale e capitalismo della sorveglianza in salsa asiatica ben shakerati, con una spruzzata di Hobbes e Bentham (quello del Panopticon) in chiave futuribile: ecco il segreto del gioco.
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