Massimilano Gallo per ilnapolista.it
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Domenica scorsa qualsiasi appassionato italiano di calcio che non fosse stato milanista o interista, ha trascorso le ore del pomeriggio facendo zapping tra i campi di Manchester e Liverpool.
L’appassionato, lo spettatore, ha ottenuto quel che sperava di ottenere quando ha sottoscritto un abbonamento che comprendeva la Premier League: le emozioni legate a uno sport che all’estero resta ancora emozionante. Il City di Guardiola è stato sull’orlo del baratro, sotto prima di un gol e poi di due. In casa contro l’Aston Villa di Gerrard bandiera del Liverpool che ad Anfield Road non stava riuscendo a battere il Wolverhampton. Tutti giocavano alla morte. Le due formazioni che si stavano disputando il campionato e le altre due che italianamente non avevano alcun interesse di classifica ma che stavano praticando – non solo onorando – lo sport professionistico. E stavano facendo entertainment, quindi audience.
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Mentre nel Regno Unito si era in overbooking di adrenalina, da noi il Milan aveva già segnato tre gol al Sassuolo balneare che avevamo visto in azione anche a Napoli. Noi italiani crediamo sempre di essere i più fighi (ieri El Paìs ha pubblicato una sorta di elogio del biscotto). In realtà siamo soltanto vecchi e fuori dalla storia. Non abbiamo compreso che è la competitività che affascina il pubblico, che spinge il cliente (sì il cliente) a sborsare soldi per assistere a uno spettacolo.
Se sono appassionato di calcio, spendo per uno spettacolo all’altezza. Spendo per la Champions, per la Premier. Lì guardo il calcio, assisto a uno spettacolo sportivo e agonistico di eccellenza, che mi tiene avvinto fino all’ultimo, anche quando Golia gioca contro un Davide che dovrebbe essere del tutto disinteressato. Tutto questo produce show. E lo show produce business. Persino in un torneo che ha vinto la stessa squadra – il City – vincere quattro delle ultime cinque edizioni.
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Ovviamente non occorreva l’ultima giornata di campionato per comprendere la differenza abissale tra la Premier e la Serie A. Ma è stata l’ennesima conferma della differenza che si riverbera sul mercato. Non a caso la Premier League ha venduto i diritti tv internazionali a una cifra superiore a quelli venduti nel Regno Unito. Li ha venduti a 6,1 miliardi di euro per il triennio 2022-2025.
Sapete la Serie A quanto incasserà per i diritti tv internazionale nel triennio 2021-2024? Seicento milioni di euro, duecento a stagione. All’estero la nostra intelligenza non la comprendono, non si appassionano a Napoli-Sassuolo 6-0, ritengono che non sia uno spettacolo per cui valga la pena spendere.
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La Premier ha venduto i diritti tv inglesi (quindi a uso interno) per poco meno di 6 miliardi di euro. Somma di poco inferiore a quelli internazionali. La Serie A ha raggiunto il suo picco con l’attuale offerta di Dazn: 927,5 milioni di euro a stagione fino al 2024, per un totale di 2.8 miliardi di euro in tre anni. Al momento siamo a meno del 50% della Premier League. Ma è una forbice destinata ad aumentare.
La prossima asta per i diritti tv della Serie A (questi scadono nel 2024) sarà quasi certamente al ribasso. E con ogni probabilità anche un ribasso importante. Facciamo finta di non rendercene conto ma è assurdo che dall’inizio dell’anno non si abbiano notizie certe sui dati di ascolto. Senza impelagarci nella contesa tra Dazn, Auditel, Lega Serie A, Authority, resta il fatto che i dati non li abbiamo. Quei pochi esistenti, offrono il quadro impietoso di un declino. Il calcio italiano non è più considerato uno spettacolo per cui vale la pena spendere a ogni costo. In parte sarà dovuto ai problemi tecnici ma tanto, a nostro avviso, è dovuto al modesto spettacolo offerto.
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Nessuno in Italia sembra interessato ad affrontare il tema della perdita di attrattiva del nostro calcio, ai club preme solo sfangarla sull’indice di liquidità. Tutte le battaglie sono prive di alcuna visione, focalizzate sul “pochi, maledetti e subito”. In un simile contesto, non è per nulla casuale che una squadra italiana abbia centrato al primo tentativo la finale della terza e più povera delle coppe europee: la Conference League. La finale della Roma (bravissima) è la fotografia del nostro calcio: oggi questo vale il movimento italiano. E chissà per quanto tempo ancora, considerato che siamo lontanissimi da una presa di coscienza della nostra condizione. Nonostante la seconda esclusione consecutiva dai Mondiali.
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Saremo sempre più poveri e sempre più rinchiusi nelle nostre discussioni prive di alcun interesse. Sempre più terreno di caccia per fondi che investono proprio perché valiamo poco e siamo una buona opportunità speculativa. Sempre più meta di ex fuoriclasse che vengono a trascorrere qui gli ultimi anni delle loro un tempo luminose carriere. Sempre più invischiati in inutili diatribe arbitrali. O in considerazioni primitive sulla settimana tipo e i punti fatti senza le Coppe. Incapaci di darci regole che migliorerebbero la competitività e quindi produrrebbero business. Siamo antropologicamente fuori dal contesto internazionale del calcio. È tutto il sistema a esserne fuori. Mentre da lontano, giungono echi di affari Mbappé, di stravolgimenti nella geopolitica del pallone, di ristrutturazioni record di stadi. Di un calcio che oggi possiamo guardare solo pagando i diritti tv esteri.
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