Tensione alta in Colombia
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In Colombia la tensione è molto alta. Ogni giorno proteste nelle strade: la proposta di riforma fiscale, voluta dal presidente conservatore Ivan Duque, ha scatenato la rabbia delle classi sociali meno abbienti. Dal 28 aprile a oggi tanti scontri tra i manifestanti e le forze dell’ordine.
Migliaia di feriti, un centinaio di persone scomparse e circa sessanta morti. La pandemia Covid-19 picchia duro nel Paese sudamericano attualmente investito dalla terza ondata: al momento si conteggiano oltre novantaduemila morti accertati. Anche causa della pandemia sono milioni i colombiani che adesso vivono stabilmente nella miseria mentre i cartelli del narcotraffico continuano le loro attività avendo messo a coltura nuovi e ampi territori. Un coacervo di situazioni intrecciate fra loro.
I militari presidieranno lo stadio
Lo stadio metropolitano Roberto Meléndez è l’impianto ufficiale della Nazionale colombiana con circa cinquantamila posti. Per questa gara sono consentiti diecimila ingressi a persone vaccinate. Quasi cinquemila militari presidieranno lo stadio per evitare che le proteste popolari arrivino sin dentro le tribune del Meléndez. In volo anche elicotteri e droni per controllare la situazione.
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COLOMBIA
Estratto da rivistaundici.com
Il 28 aprile 2021 la Colombia si è svegliata con le piazze inondate di persone: era iniziato il più imponente sciopero generale della giovane storia repubblicana del paese andino. L’obiettivo iniziale della protesta era l’abolizione di una riforma tributaria, la Ley de Solidaridad Sostenible, proposta dal governo del presidente della repubblica Ivan Duque, uomo più in vista del partito conservatore Centro Democratico.
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Eravamo di fronte a una storia che si ripete spessissimo quando si guarda alle giovani democrazie sudamericane, troppe volte finite in mano a governi che colpiscono, con riforme economiche discutibili, gli strati più poveri della popolazione, aumentando la forbice già alta tra le classi abbienti e il resto dei cittadini. Lo ha ammesso lo stesso Ministro del Tesoro colombiano, Alberto Carrasquilla Barrera, colui che ha deciso di reprimere con forza ogni tentativo di protesta di piazza.
Da allora le proteste non sono ancora terminate, e il numero di vittime dovute agli scontri in strada tra i manifestanti e le forze dell’ordine sale ogni giorno che passa: secondo le Ong Temblores e Indepaz, i morti accertati sarebbero 71; per il ministro della difesa, invece, la quota scende a 48. È una disputa sui numeri che risulta straniante se poi, al conto di questo primo mese di proteste, aggiungiamo anche le migliaia di persone che sono rimaste ferite e le centinaia di persone che sono desaparecidas senza che di loro si sappia niente, come se fosse l’eco di un passato terribile che risuona in maniera sinistra per tutto il subcontinente, non solo per la Colombia.
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Eppure, nonostante la terribile repressione, le proteste sembravano avere avuto successo, tanto che il governo ha cominciato a perdere pezzi importanti: il 2 maggio la nuova regolamentazione fiscale è stata ritirata; due giorni dopo si è dimesso il ministro delle Finanze, Alberto Carrasquilla, promotore della riforma; l’11 maggio, infine, si è dimesso anche l’Alto Commissario per la Pace, Miguel Ceballos, colui che avrebbe dovuto lavorare a una transizione pacifica tra i guerriglieri delle FARC e lo Stato, ma che ha ostacolato in ogni modo il percorso di pace.
Nonostante questi provvedimenti e tutte queste dimissioni, le manifestazioni non si sono arrestate, anche perché nel frattempo si sono trasformate in qualcosa di più profondo: un attacco violento e diretto contro il presidente Duque, contro la sua gestione della pandemia, e poi contro la brutalità della polizia, manifestatasi non solo in occasione di queste ultime proteste, ma in tantissimi atti repressivi commessi negli ultimi anni – e infatti anche a settembre 2020 c’erano state delle dimostrazioni contro gli abusi delle forze dell’ordine, puntualmente sfociate in scontri per strada.
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Il calcio, anche se indirettamente, è stato protagonista delle mobilitazioni, con una forte presenza delle tifoserie organizzate, tutte in prima linea nelle manifestazioni di piazza – soprattutto con i giovani che appartengono ai gruppi più caldi del Paese. Un esempio importante è quello della città di Cali, uno degli epicentri delle proteste: «No mas muerte por colores», è lo striscione dietro a cui hanno manifestato uomini e donne delle barras bravas di América e Deportivo, le due squadre più importanti della città.
Le due tifoserie sono acerrime rivali e i loro scontri hanno avuto tragiche conseguenze, come per esempio nel febbraio scorso, quando sono morti due tifosi nei (consueti) tafferugli prima del Clásico Caleño. I valori e gli obiettivi delle proteste politiche, però, stanno facendo saltare tutti gli schemi, anche quelli che sembravano consolidati e cristallizzati, così le vecchie ferite si rimarginano e l’odio sportivo scompare, almeno per un po’. In un’intervista rilasciata alla CNN, uno dei capi-ultras ha dichiarato: «Siamo di fronte a un momento storico. Possiamo sognare e ottenere un Paese e un mondo migliore. Questo è il motivo per cui ci siamo uniti. La nostra grande rivalità cade di fronte a occasioni come questa».
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La presenza più significativa è stata quella del Frente Radical Verdiblanco, una delle barras del Deportivo Cali, da sempre impegnato in campagne sociali nei quartieri più poveri della propria città. Come si legge sulla front page della loro pagina Facebook, per i componenti del gruppo il fútbol è «pace, allegria e passione. Ora non c’è pace sociale e il nostro governo colpisce la povertà da ogni lato. Come possiamo rimanere con le mani in mano?». Guardando quelle facce e ascoltando le loro voci si capisce che la generazione degli olvidados ha preso in mano il proprio destino e sembra non avere alcun intenzione di fare un passo indietro. In questo movimento così importante per un’intera generazione hanno detto la loro anche alcuni dei giocatori più in vista della nazionale tricolor, che in larga parte si sono schierati dalla parte dei manifestanti.
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Tra questi ci sono Radamel Falcao, attaccante oggi in forza al Galatasaray e capitano della Colombia, che ha solidarizzato fin da subito con le proteste, e anche il difensore Jeyson Murillo, ex Inter e Sampdoria, che ha dichiarato di essere vicino alle famiglie dei desaparecidos; poi ci sono le mosche bianche che stanno con il Presidente Duque, come Faustino Asprilla, ex calciatore che ricordiamo per le sue giocate funamboliche nel Parma anni Novanta targato Parmalat.
Nel mezzo tra questi due gruppi si colloca James Rodríguez, uno degli uomini-simbolo del calcio colombiano: il trequartista dell’Everton, in un lungo post pubblicato sul suo account Twitter il 4 maggio, ha invocato una soluzione pacifica, chiedendo il cessate il fuoco da entrambe le parti e denunciando l’uso sconsiderato della violenza. Una posizione che non è piaciuto alla larga parte dei suoi connazionali, tanto che lo stesso James ha raccontato di aver ricevuto delle minacce: per i colombiani, infatti, non schierarsi significa stare dalla parte del governo.