Marco Giusti per Dagospia
joaquin phoenix in beau ha paura
Vi avverto. Non ci sarà possibilità di scegliere. Dopo le tre ore di “Beau ha paura” di Ari Aster, il geniale regista di “Hereditary” e di “Midsommar”, o vi avrà conquistato in un misto di orrore e divertimento o sarete furibondi con voi stessi che ci siete andati o con chi, sciagurato, vi ci ha portato.
Ora. Non so se sia esattamente un capolavoro, i due film precedenti di Aster, due horror più o meno tradizionali, mi erano piaciuti ma non mi avevano così esaltato. “Beau ha paura”, prodotto dalla più importante casa di produzione oggi al mondo, la A24 che ha stravinto gli Oscar con "Everything Everywhere All At Once” e “The Whale”, che ci ha dato serie come “Euphoria” e “Beef” e film da “Moonlight” di Barry Jenkins a “X” di Ti West, mi ha lasciato a occhi aperti per oltre due ore.
beau ha paura locandina
Inseguendo un Joaquin Phoenix meraviglioso, invecchiato, appesantito, distrutto dai sensi di colpi e da tutto il peso del mondo, dalla mancanza di un padre e da un complesso di Edipo grande come il cazzo-mostro di due metri che a un certo punto si palesa in soffitta, in un viaggio psicanalitico anni ’60 più simile al “Candy” nella stesura di Buck Henry che a un simil Kafka o simil Fellini (tranquilli non è un film felliniano come tutto quello che si vede in Italia…), o a una rilettura dei film di Charlie Kaufman, fino a quando non si esalta nella costruzione della figura materna che ci trascinerà fino alla terza ora successiva.
E lì prende il volo. E capiamo tutto. Perché la Mona Wasserman di Patti LuPone, attrice di culto che ha vinto tre premi Tony, che abbiamo amato in “American Horror Story”, “Penny Dreadful” e “Pose”, non è solo la terribile Grande Madre Ebrea che racchiude dentro di sé tutte le paure dei maschi cresciuti coi sensi di colpa (GUILTY!) come Beau, non ultimo quello di aver scopato nel letto della madre sul modello Philip Roth o aver creduto che un’altra donna potesse prendere il posto di mammina.
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E’ anche la proiezione di tutte queste paure, totalmente maschili, che Beau si trascina dietro da quando è nato. Un mostro che il maschio medio, qui ebreo americano ma anche italiano cattolico, vi assicuro, ha costruito dentro la sua testa e attraverso mille sedute con l’infame psicanalista (per Beau, ovviamente, venduto alla madre) per poter soffrire autoflagellandosi per tutta la vita. Per non vivere una sana vita sessuale con l’altro sesso.
Un mostro che è pronto a punirci chiudendoci nella soffitta assieme al ricordo vago di un padre assente, identico a noi, e al cazzo di due metri con palle gonfie come mongolfiere che domina la nostra mente pronto a combattere contro il veterano macho di Denis Ménochet.
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Ovvio che ci ricordiamo, e bene, del Mastroianni di “Otto e mezzo” e di “La città delle donne”, dove il viaggio che subiamo è totalmente psicanalitico, e non a caso uno degli attori, Nathan Lane, ha descritto il film come un "Jewish 'Everything Everywhere All at Once'", e lo stesso Aster come un “Jewish Lord of the Rings”, ma qui non c’è nessuna piccola gioia, nessuna piccola esplosione di gioia, il Beau di Joaquin Phoenix vive un attacco di panico lungo una vita e tutto ci porterà solo e per sempre alla figura amata/odiata, scomposta poi ricostruita dentro di noi del mostro, della Grande Madre Ebrea.
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E Patti LuPone ha uno dei monologhi più incredibili che abbia sentito al cinema negli ultimi anni e vale l’attesa di due ore e tutto il folle viaggio del povero Beau. Per non parlare di Joaquin Phoenix che domina ogni scena del film non facendo praticamente nulla. Tutto imploso dentro se stesso. Alla ricerca di una via di fuga dalla madre e dal senso di colpa continuo di non poterla, non volerla vedere.
Leggo che il film, nato da un corto del 2011 e pensato come l’esordio di Aster, il film della vita, non recupererà mai i 35 milioni di dollari spesi. Probabile. O che l’ora centrale, dove c’è tempo per una lunga sequenza animata a passo uno dei cileni Cristobal Leon e Joaquin Cocina, dove Beau rivive la propria storia come fosse raccontata in una piece teatrale dentro un bosco, poteva benissimo esser tagliato. Forse, ma è bella.
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E leggo che le reazioni del pubblico americano sono totalmente divise, del resto il film è divisivo. Non può piacere a tutti. Ma che vi piaccia o non vi piaccia, penso che sia fuor di dubbio il desiderio di Ari Aster e di Joaquin Phoenix di andare fino in fondo, senza sconti, con la storia e col personaggio che hanno messo in scena.
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Che ci riportano, pensavo, al mondo dei grandi scrittori americani degli anni ’60, da Buck Henry a Elaine May, da Mike Nichols a Jules Feiffer. «Una delle voci più straordinarie del cinema mondiale», ha detto Martin Scorsese parlando di Ari Aster. Di sicuro è il suo film migliore. In sala da giovedì 27 aprile.
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